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Indonesia: in bilico fra aspirazioni internazionali e l’eredità di Suharto

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1. Il nuovo mandato di Susilo Bambang Yudhoyono

Il 20 ottobre 2009 si inaugurava il nuovo mandato del presidente Susilo Bambang Yudhoyono, ottenuto con una vittoria netta e che superava anche le pur ottimistiche previsioni della vigilia. I sostenitori del presidente ritenevano che tale successo segnasse l’inizio di una stagione di riforme decisive e coraggiose. L’esecutivo, tuttavia, si è trovato spesso in difficoltà nel corso del 2010, tanto che tali aspettative sono state disattese.

L’inizio del secondo mandato di Yudhoyono è stato, infatti, caratterizzato da tensioni e polemiche politiche (spesso del tutto mediocri). Tali polemiche hanno riportato alla luce i punti più negativi dell’eredità di Suharto e hanno minato la reputazione che Yudhoyono si era costruito di inflessibile avversario della corruzione.

D’altra parte, se il 2010 vedeva la presidenza in difficoltà nella politica interna, nella politica estera – monopolizzata da Yudhoyono stesso – l’arcipelago indonesiano ritrovava il suo ruolo di potenza regionale: i rapporti sempre più amichevoli con l’Australia, la firma dell’accordo cosiddetto di comprehensive partnership (comprendente sicurezza, commercio, cambiamento climatico e altro) con gli USA e, infine, sia il rapporto privilegiato che si costruiva con l’amministrazione Obama (segnato dal pulang kampung, il «ritorno a casa» del presidente americano) sia la visita del primo ministro cinese Wen Jiabao nell’aprile 2010 permettevano a Yudhoyono di coniare lo slogan secondo cui l’Indonesia avrebbe «mille amici e zero nemici» e dimostravano la crescente influenza giocata dal paese sullo scenario internazionale [W/HP 11 ottobre 2010, «Obama in Indonesia 2010: A Long-Awaited Return»].

Le aspirazioni internazionali dell’Indonesia crescevano nel corso di tutto l’anno: il dibattito svoltosi nel 2010 su come capitalizzare l’adesione al G20 (gruppo nel quale l’Indonesia rappresentava la terza economia per rapidità della crescita, dopo Cina ed India) dimostrava le crescenti ambizioni dell’arcipelago [W/E 31 marzo 2010, «Indonesia’s place in the global jungle»]. Tali mire venivano anche testimoniate sia dal desiderio di venire accreditati nel club economico del BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) sia dagli sforzi diplomatici che trovavano espressione nella partecipazione all’International Conference on Afghanistan, svoltasi a Londra il 28 gennaio 2010.

Le ambizioni internazionali indonesiane sono tuttavia costituite su fondamenta interne estremamente instabili: corruzione, sistemi clientelari e scontri di potere hanno infatti caratterizzato il corso di tutto il 2010. Questa situazione ha bloccato l’azione riformatrice del governo, mettendo in discussione il nuovo corso che il presidente Yudhoyono aveva cercato di avviare e favorendo politicamente le élite legate al regime di Suharto e al sistema economico da questi creato.

2. Il caso della Bank Century, la delegittimazione del KPK e altri scandali

La fine del 2009 già si caratterizzava per le polemiche legate al salvataggio della Bank Century e dal tentativo di delegittimare la Commissione per l’Eradicazione della Corruzione (KPK) [AM 2009, p. 207]. Tali polemiche segnavano l’agenda politica di tutta la prima parte dell’anno e assumevano, a tratti, i connotati di una vera e propria soap opera.

La vicenda era iniziata nell’ottobre del 2008, quando la banca aveva subito una crisi di liquidità e alcuni dei suoi più importanti clienti, fra cui il magnate delle sigarette Budi Sampoerna, avevano iniziato a ritirare i loro capitali, temendo l’insolvenza dell’istituto. La banca, colta dal panico, aveva bloccato il ritiro dei fondi per paura di fare bancarotta. Nel novembre 2008 le autorità monetarie indonesiane erano intervenute, immettendo liquidità nella banca, nel tentativo di tenerla a galla. In particolare un ruolo chiave era stato giocato dal Comitato di Stabilità del Settore Finanziario (Komite Stabilitas Sektor Keuangan – KSSK), allora presieduto dalla signora Sri Mulyani Indrawati e di cui era parte l’allora governatore della Banca d’Indonesia, Boediono (rispettivamente il ministro delle Finanze e il vice presidente del secondo governo Yudhoyono, noti a livello internazionale come seri riformisti). Il KSSK aveva fatto una valutazione sullo stato di salute della banca, constatando la necessità di un intervento governativo per evitare il peggio [Tomsa 2010].

Se il salvataggio della banca era stato inizialmente autorizzato dal parlamento, il volume di denaro impiegato a tal fine – equivalente a circa 700 milioni di dollari – era stato di gran lunga superiore alle previsioni, tanto che era emerso con forza il sospetto che fossero stati attuati «trattamenti preferenziali» nei riguardi di alcuni dei più importanti clienti. Il caso più clamoroso era quello del citato Budi Sampoerna, che era stato aiutato a reimpossessarsi dei suoi depositi dal commissario generale della polizia Susno Duadji [Tomsa 2010].

La potente e popolare Commissione per l’eradicazione della corruzione era, infatti, venuta in possesso di una registrazione in cui Duadji richiedeva una tangente di 10 milioni di rupie (poco più di 800 euro) ad un avvocato che rappresentava Budi Sampoerna, come compenso per i servizi resi. Tale circostanza aveva portato inevitabilmente alla guerra aperta fra Commissione e polizia [Jansen 2010].

Nello stesso periodo i tentativi già in corso per minare la reputazione della Commissione raggiungevano un nuovo livello, in particolar modo per il coinvolgimento del suo presidente, Antasari Azhar, nel processo per un oscuro omicidio (del marito di una sua presunta amante). Inoltre i suoi due vice, Bibit Rianto e Chandra Hamzah, erano stati accusati – da Azhar stesso – di aver sollecitato in passato delle tangenti. Nel corso di questa vicenda, la polizia era stata accusata di avere influenzato i testimoni in modo da incriminare i membri della Commissione, considerati come degli avversari politici. Mentre il primo caso si risolveva con la condanna a 18 anni di prigione (anche se l’imputato continuava a sostenere la sua innocenza), il secondo caso si rivelava per essere costruito a tavolino e i due uomini venivano reintegrati nella loro funzioni dopo essere stati sospesi per tre mesi [Jansen 2010].

Il protrarsi delle tensioni fra polizia e Commissione e la reazione dell’opinione pubblica, in gran parte sfavorevole alla polizia, avevano costretto lo stesso Yudhoyono a intervenire pubblicamente nella funzione di paciere.

Per comprendere la portata e il significato di queste convulse vicende è necessario tuttavia inquadrarle all’interno della situazione politica venutasi a creare. Nonostante che all’estero siano stati largamente sopravvalutati, è innegabile che la lotta alla corruzione e il ruolo svolto dalla Commissione abbiano raggiunto traguardi importanti (e che tali traguardi si siano riflessi positivamente su Yudhoyono stesso). Tuttavia è altrettanto innegabile che, al contempo, una consistente parte dell’élite di Giacarta, minacciata dall’azione anti corruzione, fosse in cerca di una rivincita. Si tratta di un’élite in gran parte costituita dai detentori del potere nell’epoca di Suharto e da un vecchio apparato clientelare da questi creato [W/E 4 marzo 2010, «Indonesia’s embattled reformers»].

Le polemiche innescatesi su Bank Century e sulla Commissione venivano dunque cavalcate da questa élite avversa alla lotta alla corruzione e dai due partiti che, nella coalizione governativa, la rappresentavano: il Golkar (il partito che fu di Suharto) e il PKS (Prosperous Justice Party).

Aburizal Bakrie (magnate e leader del Golkar), agendo nella prospettiva delle elezioni presidenziali del 2014, conduceva una campagna per le dimissioni di Sri Mulyani Indrawati e di Boediono, nel tentativo di accreditarsi come vero paladino delle riforme [W/E 4 marzo 2010, «Indonesia’s parliamentary showdown»]. Bakrie era mosso anche da motivazioni personali: tre diverse aziende legate al suo impero finanziario erano finite sotto indagine per evasione fiscale. Sri Mulyani, generalmente indicata come il capofila dei riformatori in materia fiscale, veniva inevitabilmente designata come primo bersaglio politico. Il PKS e altre compagini governative erano, invece, infastidite dalle posizioni filo-occidentali di Boediono.

Il ruolo giocato dal KSSK (rivendicato come corretto sia da Sri Mulyani sia da Boediono, che lo consideravano nel quadro generale della crisi finanziaria internazionale) rappresentava l’occasione di coinvolgere i due riformisti nello scandalo della Bank Century, saldando quindi dei conti politici.

Nel maggio 2010 Sri Mulyani, logarata da una campagna di diffamazione (dalla quale, per altro, non risultava nessun comportamento realmente illecito da lei compiuto) e considerando lo scarso sostegno ricevuto da Yudhoyono (che cercava di rimanere al di fuori della vicenda), si dimetteva, decretando la vittoria di Bakrie [W/E 21 ottobre 2010, «SBY’s feet of clay»]. Nel suo discorso di dimissioni, – prima di assumere un incarico nella Banca Mondiale – Sri Mulyani paragonava l’Indonesia di oggi a quella di Suharto, evidenziando le collusioni pubblico-privato e denunciando i meccanismi di controllo dei processi decisionali da parte di gruppi privati, sostenendo che, dall’epoca di Suharto si erano fatti semplicemente più sofisticati.

La settimana dopo le dimissioni di Sri Mulyani, Yudhoyono nominava Bakrie segretario della coalizione di governo, sancendone l’ascesa politica. Non solo; il presidente, temendo che il Golkar potesse lasciare la coalizione di governo, benediceva e varava una manovra per lo sviluppo rurale (generalmente considerata inadeguata) proposta dal Golkar.

3. La crescita della violenza nel corso delle elezioni locali

Un altro fattore che segnava il deterioramento della situazione nel corso del 2010 era l’incremento degli episodi di violenza in occasione delle elezioni amministrative locali. I casi di violenza verificatisi non erano generalmente legati a questioni inerenti la politica nazionale, quanto piuttosto a episodi di rivalità e a scontri per il potere squisitamente locali. L’intensificarsi degli episodi, tuttavia, denotava una debolezza dell’apparato di governance indonesiano. Pur trattandosi di elezioni considerate in genere di scarsa importanza, esse, in realtà, sono un elemento fondamentale nella vita democratica indonesiana giacché, successivamente all’avvio della politica di decentralizzazione, le autorità locali incidono sulla vita degli elettori in maniera estremamente significativa.

Le elezioni dirette delle autorità locali erano state introdotte in Indonesia a partire dal 2005, come conseguenza di una progressiva politica di decentramento, in seguito alla fine del regime di Suharto (prima la selezione delle autorità locali si svolgevano attraverso differenti processi di cooptazione). Nel primo ciclo di elezioni, svoltosi fra il 2005 e il 2008, si erano verificati complessivamente 13 incidenti, mentre nel solo 2010 se ne contavano ben 20 [W/ICG 8 dicembre 2010, «Indonesia: Preventing violence in local elections», p. 22]. Sebbene si sia trattato di episodi isolati, tale escalation sono tuttavia preoccupanti. Se, infatti, si analizzano gli incidenti svoltisi nel 2010, ne emerge che le ragioni risiedevano negli errori commessi dall’apparato organizzativo, dalla polizia, e dai candidati stessi. Si è dunque trattato in gran parte di incidenti che sarebbe stato facile evitare. A dispetto dell’incremento degli incidenti, si è potuto osservare che, nelle località in cui in passato si erano verificati degli episodi di violenza, durante le recenti elezioni tutto si è svolto correttamente; ciò dimostra la capacità delle forze in campo di imparare dai propri errori.

L’aumento degli episodi di violenza, tuttavia, segnava un chiaro deterioramento della governance locale e, laddove le amministrazioni locali venivano messe in discussione, l’intero apparato statale entrava in crisi: una lezione da considerarsi importante per il futuro democratico dell’arcipelago [W/ICG 8 dicembre 2010, «Indonesia: Preventing violence in local elections», p. 19].

4. Il varo del bilancio per il 2011 e la situazione economica complessiva

Le turbolenze politiche del 2010 si riflettevano anche nelle difficoltà incontrate dal governo nel varo della legge finanziaria per l’anno fiscale marzo 2011 – febbraio 2012, che infatti andava incontro a numerose modifiche nel corso del processo di approvazione.

Nel prospetto inizialmente presentato da Yudhoyono, il bilancio ammontava a 129,24 miliardi di dollari, con un incremento del 9,5% rispetto a quello del 2010. Era previsto che le spese pubbliche aumentassero del 6,5%, provocando un deficit dell’1,7% necessario, nelle parole di Yudhoyono, a stimolare la crescita dell’economia indonesiana. In accordo con il bilancio presentato, le tasse avrebbero coperto il 77% delle spese totali: un incremento del 13% rispetto al 2009-2010, che preannunciava anche la prosecuzione delle riforme fiscali e della lotta contro l’evasione. Il bilancio prevedeva anche un aumento delle pensioni del personale del servizio pubblico e dei militari fino al 10%. Il bilancio prevedeva una crescita del PIL pari al 6,3% e un tasso di inflazione del 5,3% [W/JP, 26 ottobre 2010, «House committee passes 2011 state budget proposal with several changes»].

Il bilancio, presentato al parlamento nel mese di agosto, veniva approvato solo alla fine di ottobre, dopo un percorso travagliato e numerose modifiche. Innanzitutto nel bilancio definitivo aumentavano in maniera cospicua le spese pubbliche, portando il deficit di previsione all’1,8%. Le spese pubbliche venivano maggiormente decentralizzate e venivano incrementate le spese infrastrutturali (che rappresentavano il 10% del budget).

Le entrate dal fisco servivano a coprire solo il 72% delle spese (in diminuzione rispetto alla versione originale del bilancio), mentre le entrate dovute all’esportazione di petrolio e di gas naturale coprivano il 20%. Dato l’aumento della spesa pubblica, era previsto anche un incremento del tasso di crescita: il 6,4% per il 2011 [W/JP, 26 ottobre 2010, «House committee passes 2011 state budget proposal with several changes»].

Nel complesso, l’economia indonesiana nel 2010 è apparsa essere solida e il governo ha fronteggiato in modo adeguato la crisi finanziaria internazionale [FMI 2010, p. 3]. Tuttavia, molti indicatori economici rivelano una situazione più complessa di quanto sembri a prima vista e tale da porre in allarme l’attuale governo.

In primo luogo il tasso di crescita dell’economia indonesiana è stato molto elevato ma inferiore a buona parte di quello dei paesi limitrofi. L’Indonesia sta quindi perdendo terreno nei confronti di Cina, India, Thailandia, Malaysia, Vietnam e Filippine, in particolare per quanto riguarda gli investimenti diretti esteri, la produzione, le infrastrutture e l’istruzione. Soprattutto gli investimenti diretti esteri sono concentrati solo sullo sfruttamento delle risorse naturali e sulla produzione di beni di consumo per il mercato nazionale. Diversamente da quanto accade nei paesi limitrofi, gli investimenti esteri tendono a non incanalarsi nelle produzioni ad alta tecnologia e, in alcuni casi tendono a diminuire in valore assoluto (per esempio gli investimenti diretti australiani nel 2010 sono risultati inferiori a quelli del 1996) [HKS 2010, pp. 28-30].

È stato lo sfruttamento delle risorse naturali a contribuire in maniera decisiva all’uscita dell’Indonesia dalla crisi economica: buona parte dei successi degli ultimi due anni sono dovuti, infatti, alle esportazioni in Cina (in particolare di carbone e di olio di palma). Si tratta tuttavia di una strategia valida per il breve periodo, che, chiaramente, non è sostenibile sul lungo periodo [W/E 21 ottobre 2010, «SBY’s feet of clay»].

La scarsa competitività e un’eccessiva regolamentazione del mercato del lavoro hanno portato al rallentamento della creazione di posti di lavoro (posti di lavoro che sono cresciuti solo dell’1,62% dal 2002 al 2007, uno dei risultati peggiori a livello regionale). Il problema appare ancora più grave se si considera che il costo del lavoro in Indonesia è nettamente inferiore rispetto ai paesi direttamente concorrenti (come Cina e Malaysia) [HKS 2010, pp. 34-36].

Anche gli indicatori sociali mostrano altresì una situazione allarmante: la mortalità di bambini al di sotto dei 5 anni è di 41 su 1.000, di gran lunga superiore a quella dei paesi limitrofi come il Vietnam e la Thailandia (entrambi con un tasso di 14), la Cina (con un tasso di 21) e le Filippine (con un tasso di 36). Sulla base dei dati del 2008, inoltre, l’accesso a fonti di acqua potabile continua ad essere limitato: l’acqua potabile è disponibile al 71% della popolazione, contro l’81% della Cina, l’86% dell’India e il 97% della Thailandia [HKS 2010, pp. 37-41].

In particolare, è interessante osservare il dato relativo alla povertà: secondo le statistiche ufficiali la popolazione che vive sotto la linea di povertà assoluta è del 15,4% (con un indice di Gini dello 0,35). Tale dato è tuttavia ricavato da una definizione della linea della povertà assoluta particolarmente bassa: il reddito di un dollaro al giorno per persona. È da notarsi che paesi limitrofi, come la Thailandia e le Filippine, hanno fissato la linea della povertà su livelli decisamente più alti (rispettivamente 2,5 e 1,6 dollari). Se s’incrementasse la linea della povertà in Indonesia da 1 a 1,25 dollari al giorno, la parte della popolazione che vive nella povertà assoluta salirebbe al 53%. Si tratta di una dato che evidenzia come la (sperequante) distribuzione della ricchezza continua a costituire un importante problema [HKS 2010, pp. 42-47].

Ad aggravare la situazione vi è anche lo scarso investimento fatto dall’Indonesia per formare le proprie risorse umane; si tratta, d’altra parte, di un problema comune a molti paesi che basano la loro economia sullo sfruttamento delle risorse naturali. In Indonesia ci sono chiare carenze nell’istruzione primaria: secondo i dati della Banca Mondiale, visti i bassi salari, il 20% degli insegnati, comunque scarsamente qualificati, semplicemente non si presenta a scuola. Da ciò consegue un livello di istruzione estremamente basso, che rappresenta un ostacolo importante anche per il funzionamento delle autorità locali, specie in questa fase di forte decentralizzazione. La debolezza dell’istruzione primaria si rispecchia anche sulla inadeguata istruzione universitaria, di basso livello e con pochi legami con il mercato del lavoro [HKS 2010, pp. 53-54].

Il bilancio per il 2011, con i suoi numerosi compromessi, costituiva un passo molto piccolo per affrontare tali problematiche: si era preferito garantire la stabilità finanziaria piuttosto che ricercare una chiara strategia di sviluppo.

5. Tensioni in Papua Occidentale

Nel corso del 2010, tornava varie volte nelle cronache la situazione nel Papua Occidentale, la provincia indonesiana che coincide con la parte occidentale dell’isola della Papua Nuova Guinea (fino al 2007, Irian Jaia).

Il 16 dicembre 2009 moriva, infatti, in un raid di polizia, Kelly Kwalik, il leader separatista e comandante militare del Free Papua Movement (Organisasi Papua Merdeka, OPM). Jack Kemong lo aveva sostituito al comando militare, continuando la linea di dialogo già avviata con le autorità indonesiane [W/WPR febbraio 2010].

La nomina del general maggiore Hotma Marbun a comandante militare in Papua Occidentale sembrava d’altra parte costituire un ostacolo al dialogo: Marbun era infatti un ufficiale del Kopassus (le forze speciali indonesiane con funzioni di controterrorismo e di guerra non convenzionale, tristemente note per la violazione dei diritti umani a Timor Est e in Aceh). Marbun stesso aveva operato a Timor Est durante il conflitto con gli irredentisti timoresi fra il 1983 e il 1986 [W/WPR marzo 2010].

I segnali di un peggioramento della situazione risultavano chiari anche da altre circostanze: mentre i poliziotti responsabili dell’uccisione di Kelly Kwalik venivano premiati, le autorità indonesiane negavano i fondi necessari alle cure mediche per Filep Karma, un attivista considerato come «prigioniero di coscienza» da Amnesty International [W/WPR novembre 2010].

La situazione nel Papua Occidentale era segnata da uno stallo politico: era sempre più evidente che l’autonomia speciale, concessa alla provincia nel 2007, aveva un valore esclusivamente formale. Infatti, lo stesso presidente Yudhoyono e il suo entourage consideravano la questione del Papua come essenzialmente economica, favorendo politiche di sviluppo piuttosto che affrontare la situazione da una prospettiva prettamente politica.

In tale situazione, il rifiuto da parte delle autorità centrali della decisione di restringere l’accesso alle cariche pubbliche locali ai soli nativi di Papua, decisione presa dal Papuan People’s Council (Majelis Rakyat Papua, MRP) L’MRP è un organismo creato in seguito alla legge sull’autonomia per garantire l’identità culturale papuana. Tale decisione da parte di Giacarta esasperava la frustrazione dei Papuani e il senso di colonizzazione che questi provano; un senso di colonizzazione ulteriormente rafforzato dal fatto che gli investimenti economici nella provincia favorivano l’immigrazione di giavanesi [W/ICG 3 agosto 2010].

L’MRP ha organizzato, nel giugno e nel luglio 2010, delle proteste di massa considerate illegali dalle autorità indonesiane. In questo scenario, il Kopassus era stato implicato, con ogni probabilità, in un’azione per screditare i leader dell’MRP, con una serie di accuse di appropriazione indebita e di corruzione, diffuse tramite sms anonimi a varie persone.

È in questo clima di crescente frustrazione che, secondo l’associazione Human Rights Watch, i diritti umani nel Papua Occidentale subivano un costante deterioramento. Alle fine del 2010, un video iniziava a circolare attraverso internet, rendendo pubblici i metodi di tortura utilizzati dal Kopassus nel Papua. Alla richiesta dell’opinione pubblica internazionale di un’indagine indipendente sull’accaduto, le autorità indonesiane rispondevano disponendo un’indagine interna [W/WPR novembre 2010]: il Kopassus avrebbe indagato su se stesso!

In realtà il 2010 costituiva un anno importante per le forze speciali: lo stesso Yudhoyono ha mirato a una riabilitazione del Kopassus (essendo egli stesso un ex generale e considerando che suo cognato, Pramono Edhie Wibowo, fino a poco tempo prima lo dirigeva). Ancor più rilevante è il fatto che molti veterani delle forze speciali occupino attualmente posizioni di rilievo all’interno del ministero della Difesa, svolgendo una funzione strategica nel funzionamento dell’apparato amministrativo. Il Kopassus ha, con tutta evidenza, una forte importanza in Indonesia; in questa prospettiva, la partecipazione di Tommy Suharto (ultimogenito dell’ex dittatore) al recente anniversario delle forze speciali è chiaramente un modo per affermare una relazione di potere.

È anche in questa luce che va letta la rimozione, in seguito al partnership agreement con gli USA, del bando americano che impediva l’erogazione di visti ai membri del Kopassus presenti e passati. Tale rimozione serviva a legittimare a livello interno il ruolo delle forze speciali. Si è trattato di uno sviluppo voluto da Yudhoyono, evidentemente al fine di assicurarsi l’appoggio dei militari in un anno tormentato dai conflitti istituzionali [W/E 17 giugno 2010, «Reform in Indonesia»].

6. Disastri naturali e il loro contraccolpo

L’anno in esame è stato per l’Indonesia ancora una volta drammatico dal punto di vista dei disastri naturali.

Il 2010 è cominciato con l’avvio della fase di post emergenza successiva al disastroso terremoto di Padang del 2009, ma il continuo susseguirsi di eventi catastrofici ha contribuito ad aggravare la situazione generale: si sono verificati un terremoto di magnitudo 7,8 della scala Richter nel mese di aprile e uno successivo di magnitudo 7,2 in maggio, entrambi a Sumatra.

Il mese di ottobre è stato di certo quello peggiore, con il verificarsi in contemporanea di un terremoto di magnitudo 7,7 seguito da uno tsunami nelle isole Mentawai e dell’eruzione del vulcano Merapi nella parte centrale di Giava.

Nelle isole Mentawai sono perite oltre 400 persone e oltre 4.000 famiglie hanno subìto danni materiali. L’eruzione del Merapi ha causato il decesso di 350 persone e ha costretto all’evacuazione di oltre 350.000 abitanti dei villaggi situati alle pendici del vulcano [W/JP 28 ottobre 2010, «World mourns over Indonesia’s…»].

In un anno così difficile, la protezione civile indonesiana è stata capace di rispondere complessivamente bene: il sistema di «avviso immediato» (early warning) ha funzionato in modo soddisfacente, sebbene la vicinanza delle isole con l’epicentro ne abbia impedito l’efficacia. La risposta per l’eruzione del vulcano Merapi, pur fra mille difficoltà, ha segnalato un miglioramento dell’organizzazione della protezione civile indonesiana.

È importante sottolineare lo sviluppo positivo compiuto dalle autorità indonesiane nel fronteggiare le emergenze; è infatti uno sviluppo che contribuisce alla graduale affermazione dell’immagine dell’Indonesia come paese emergente.

Nel corso del 2010 il dibattito pubblico è stato caratterizzato dalla frustrazione della popolazione indonesiana nel vedere il proprio paese considerato dall’opinione pubblica internazionale come instabile. Secondo i commentatori indonesiani, tale circostanza ha determinato, fra l’altro, il già ricordato rallentamento degli investimenti diretti esteri. Nei dibattiti che ne sono seguiti, il termine di paragone è spesso risultata l’India: si è detto che il paese sudasiatico ha infrastrutture peggiori, conflitti interni più insanabili, un terrorismo più violento e pessimi rapporti con i paesi confinanti. Ciononostante, l’economia indiana è cresciuta con tassi costantemente superiori all’8% negli ultimi anni, mentre l’Indonesia si è assestata sul 4- 5%. Questa significativa differenza è stata attribuita proprio ai minori investimenti diretti esteri [W/E 31 marzo 2010, «Indonesia’s place in the global jungle»].

L’Indonesia, per poter coltivare le proprie ambizioni di potenza emergente, deve in primo luogo riuscire a minimizzare l’impatto dei disastri naturali che ne hanno caratterizzato la storia recente e che più di tutto le hanno conferito la nomea di paese instabile.

7. Passi avanti, passi indietro

Il 2010 ha costituito un anno per molti versi travagliato per l’Indonesia, perché è stato caratterizzato da polemiche, tensioni e da un drastico rallentamento dell’azione riformatrice che, pur con alti e bassi, aveva caratterizzato il primo mandato di Yudhoyono.

La maggior parte degli analisti concorda nell’affermare che tali tensioni non sono davvero riuscite a indebolire l’immagine di Yudhoyono nel lungo periodo, anche in considerazione del fatto che non sono emerse alternative credibili all’attuale presidenza.

Tuttavia, il 2010 si è chiuso con dibattiti sulle candidature per le future elezioni del 2014, anche all’interno dello stesso Partai Demokrat (il partito democratico il cui leader è Yudhoyono). Si rincorrevano infatti le voci di una possibile candidatura della moglie di Yudhoyono, che proviene da una famiglia di militari e che gode di una for- te simpatia a livello popolare. Insomma, si trattava di sviluppi che dimostravano che il futuro politico di Yudhoyono è tutt’altro che certo [W/JP 4 gennaio 2011, «Mrs. Yudhoyono contender for presidency»].

L’Indonesia nel 2010 tuttavia ha compiuto anche numerosi passi avanti. In primo luogo la sua immagine internazionale è apparsa più solida: l’enfasi posta da Yudhoyono sulla democrazia e sui diritti umani come una piattaforma necessaria per la politica estera ha dato lustro a quella che, dopo tutto, è la terza più grande democrazia al mondo. A parte questo, l’azione stabilizzatrice della politica economica ha fatto in modo che l’arcipelago sopportasse la crisi internazionale e si rafforzasse dal punto di vista economico.

L’Indonesia, tuttavia, si trova a dover affrontare due importanti problematiche.

In primo luogo il governo deve riuscire a compiere delle riforme politiche e istituzionali su temi trasversali quali il decentramento politico, la formazione dei funzionari locali e la governance dell’economia. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, è necessario attuare una serie di politiche sociali che possano alleviare la povertà delle fasce più deboli della popolazione, migliorando le infrastrutture, promuovendo l’istruzione e consolidando le politiche di sviluppo rurale. Solo così sarà possibile non perdere competitività economica nei confronti degli altri paesi dell’ASEAN e, soprattutto, raggiungere l’obiettivo di diventare «una nazione avanzata e auto-sufficiente entro il 2025».

In secondo luogo, forse come precondizione per poter affrontare con successo tali tematiche, l’intellighenzia indonesiana deve ancora combattere in maniera efficace l’eredità di collusione e di clientelismo lasciata da Suharto. Si tratta di un problema che, come si è visto nel corso dell’anno sotto esame, rimane ancora molto difficile da debellare e che, pur essendo trascorsi ben 12 anni dalla caduta del regime, non è stata finora affrontata in modo adeguato. Dopo l’era della reformasi è ora necessario entrare in una fase di profonde riforme istituzionali.

Riferimenti Bibliografici

AM
2009 «Asia Maior». L’Asia di Obama e della crisi economica globale, Guerini e Associati, Milano.

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2010 A Strategic Assessment of Indonesia’s Prospects for Growth, Equity and Democratic Governance, Harvard Kennedy School, Boston.

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2010 Country Report – Indonesia, n° 10/284.

W/E «The Economist», (http://www.economist.com).
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Jansen, David
2010 Snatching victory, «Inside Indonesia», n° 100, (http://www.insideindonesia.org/stories/snatching-victory).

Tomsa, Dirk
2010 A storm in a bank vault, «Inside Indonesia», n° 100 (http://www.insideindonesia.org/stories/a-storm-in-a-bank-vault).

Giorgio Borsa

The Founder of Asia Maior

Università di Pavia

The "Cesare Bonacossa" Centre for the Study of Extra-European Peoples

THE RISE OF ASIA 2021 – CALL FOR PAPERS