Salta al contenuto

Premessa I – I primi vent’anni di Asia Maior: l’eredità politico-culturale di Giorgio Borsa

Available also in pdf – Download Pdf

Il presente volume di «Asia Maior» è il ventesimo della serie originariamente ideata e voluta da Giorgio Borsa. Non parrà quindi fuori luogo se, quest’anno, il volume stesso si apre con questa premessa dedicata al passato di «Asia Maior» e, quindi, implicitamente, anche al suo futuro. Il modo migliore per farlo è, credo, quello di iniziare soffermandomi sul suo ideatore e fondatore, Giorgio Borsa. «Asia Maior», infatti, è figlia delle sue idee e dei suoi ideali. Non solo; per quanto Giorgio Borsa sia scomparso nel 2002, e nonostante che, da parte di alcuni temporanei collaboratori del gruppo, vi siano stati tentativi di proporre nuove formule e obiettivi differenti da quelli voluti dal suo fondatore, «Asia Maior» ha continuato a muoversi lungo il solco da lui tracciato. Ma, di questo, diremo più avanti.

Giorgio Borsa concepì l’idea di fondare «Asia Maior» in concomitanza con quel séguito d’eventi che, il 9 novembre 1989, sfociò nella caduta del muro di Berlino, cioè nell’avvenimento che preannunciò, anche se pochi allora se ne resero conto, il prossimo collasso della stessa Unione Sovietica. Borsa, a differenza dei tradizionali orientalisti, non considerava le civiltà asiatiche come aree separate dall’Occidente, che obbedivano a modalità di sviluppo storico a loro peculiari e, in ogni caso, profondamente diverse da quelle che informano lo sviluppo della civiltà occidentale. Egli era invece convinto – decenni prima che il termine «globalizzazione» fosse inventato – che sia le civiltà asiatiche sia la civiltà occidentale fossero parte di un unico insieme politico, economico e culturale; a suo modo di vedere, quindi, sia le une sia l’altra erano attraversate dagli stessi processi di mutamento e di trasformazione; di conseguenza, le civiltà asiatiche andavano studiate utilizzando le stesse metodologie che si impiegavano per la civiltà occidentale. In altre parole, Borsa era convinto dell’esistenza di profonde, e reciproche, interconnessioni fra Occidente e civiltà asiatiche, in particolare a partire dal periodo che aveva visto la nascita del «mondo moderno». Questo era da lui definito come il mondo nato dalla rivoluzione industriale e caratterizzato dalle conseguenze di tale rivoluzione, non solo a livello economico, ma anche politico, militare e culturale[1].

Coerentemente con questa sua visione, Borsa si rese immediatamente conto che gli epocali sviluppi che si stavano verificando in Europa non potevano non avere una ricaduta sull’Asia. Secondo la sua teoria, la modernizzazione in Asia si era storicamente verificata non per un’imposizione dall’alto (per un «travaso» di civiltà, quasi che la civiltà fosse un liquido, come Borsa amava puntualizzare ironicamente[2]), ma attraverso l’attiva risposta delle diverse civiltà asiatiche all’impatto occidentale. Coerentemente con questa sua visione, Borsa ipotizzò che le ricadute in Asia degli eventi in Europa non sarebbero state un’accettazione passiva da parte delle nazioni asiatiche degli sviluppi verificatisi in Occidente, ma una risposta attiva, che avrebbe comportato una rilettura e una rielaborazione di quegli sviluppi, cioè la formulazione di una risposta – che, a seconda dei casi, sarebbe stata peculiarmente cinese, giapponese, indiana ecc. – agli eventi dell’89 e ai problemi di cui essi erano causa ed effetto allo stesso tempo. Da studioso empirico qual era, Borsa decise allora di creare un osservatorio sull’Asia, con il compito specifico di analizzare il concreto dispiegarsi delle vicende politiche ed economiche nelle nazioni asiatiche, sia nelle loro dinamiche sia alla luce e come conseguenza degli eventi in Europa. Questo osservatorio venne battezzato da Borsa «Asia Maior», con un preciso riferimento geografico e culturale a quella parte dell’Asia che esisteva al di là dell’«Asia Minor» degli antichi.

Concretamente, il principale compito dell’osservatorio ideato da Borsa doveva essere quello di produrre, con scadenza annuale, un volume collettaneo, composto di saggi dedicati alle singole nazioni asiatiche, le più importanti analizzate appunto con scadenza annuale, quelle meno rilevanti con minor frequenza, quando gli sviluppi politici ed economici lo avessero giustificato. Tali saggi, inoltre, non avrebbero dovuto essere semplici, per quanto diligenti, cronache, che ricostruissero puntualmente gli accadimenti di quel singolo paese nel periodo in esame. Il metodo che si sarebbe dovuto usare sarebbe invece stato quello tipico dello storico, anche se applicato al tempo presente e a periodi in genere di un anno; tale metodo, cioè, si sarebbe basato sull’individuazione per ciascun paese, nel periodo in esame, dell’evento o degli eventi più rilevanti e, quindi, tali da caratterizzare quel periodo, per poi procedere a fissare le differenti catene d’eventi che, intersecandosi a quel determinato punto, producevano l’evento o gli eventi individuati come caratterizzanti[3].

Non sempre, ovviamente, i collaboratori di «Asia Maior» sono stati in grado di applicare nella prassi le indicazioni appena ricordate, né, del resto, tutti i collaboratori di «Asia Maior» sono stati degli storici di professione. Tuttavia, le direttive metodologiche fissate da Borsa sono state applicate – e non solo dagli storici che hanno fatto parte dell’impresa, ma anche da studiosi di diversa formazione – abbastanza spesso e con sufficiente correttezza da dare ai volumi fin qui prodotti la caratteristica di fondo che li contraddistingue: quella di essere formati da scritti che, quasi sempre, si sforzano di analizzare il presente come storia. Si tratta di un metodo che, attraverso l’individuazione dei fatti rilevanti e dell’intersecarsi delle catene di avvenimenti che li hanno prodotti, è in grado di dare un’immagine non transitoria del presente. La controprova del successo di tale metodo è il fatto che, volgendo lo sguardo all’indietro, cioè agli oltre vent’anni in cui sono comparsi i saggi di «Asia Maior», la lettura di quanto si è scritto rivela come la maggior parte delle analisi elaborate dal gruppo sia formata da scritti che non rivelano – o rivelano solo in modo decisamente marginale – l’usura del tempo. In altre parole – e con alcune inevitabili eccezioni – la capacità euristica di saggi scritti dieci, quindici o vent’anni fa rimane sostanzialmente immutata. E, se anche – per volontà dello stesso Borsa – parte integrante della filosofia di «Asia Maior» è quella di non fare previsioni sul futuro, molti dei singoli saggi pubblicati nei passati vent’anni circa rivelano, a livello implicito, la capacità di prefigurare quello che sarebbe successo dopo.

Se quello appena ricordato per sommi capi è stato il bagaglio metodologico di «Asia Maior», è bene però sottolineare che esso, di per sé, sarebbe una sorta di scatola vuota se fosse disgiunto dal bagaglio filosofico e politico, parte integrante della vicenda culturale di cui il presente volume è espressione. E, anche qui, la personalità culturale e politica di Giorgio Borsa ha un ruolo assolutamente determinante, su cui è necessario soffermarsi. Per farlo è bene ricordare quali siano state le origini culturali e politiche di Giorgio Borsa, non solo perché, come si è appena ricordato, esse hanno condizionato in maniera decisiva l’intera impresa di «Asia Maior» (e, più in generale, tutta l’attività scientifica di Borsa), ma anche perché quello che fino a qui si sapeva sul retroterra politico e culturale di Borsa è, nel complesso, abbastanza poco. E, vale subito la pena di ricordare, è un fatto che rivela allo stesso tempo l’importanza culturale di Borsa e, ahimè, la povertà dell’Orientalismo italiano (ma su questo torneremo), che tali radici culturali siano state riscoperte, di fatto per caso, da un eminente storico dell’Italia contemporanea, Pier Giorgio Zunino, nel corso di una ricerca che, come diremo fra poco, nulla aveva a che vedere con il mondo dell’Orientalismo italiano.

È cosa nota che Giorgio Borsa (Milano 1912 – Milano 2002) fosse figlio di Mario Borsa, un noto giornalista di idee antifasciste e, dopo il crollo del Fascismo, un critico non compiacente delle profonde e ramificate complicità presenti nella società italiana nei confronti del Fascismo[4]. Era quindi in una famiglia antifascista da sempre che il giovane Giorgio venne a formarsi culturalmente e politicamente; e questa sua formazione originaria lo indirizzò sia nella scelta degli studi universitari, sia nelle frequentazioni culturali di quel periodo. Borsa si laureò una prima volta, nel 1933, in giurisprudenza a Milano, con una tesi intitolata La cessazione dei mandati internazionali; si trattava di un tema che non solo denotava l’interesse già presente per tematiche extraeuropee, ma che, come notato da Pier Giorgio Zunino, era «di non modesta attualità politica nell’Italia del tempo»[5]. Due anni dopo, sempre presso l’Università di Milano, Giorgio si laureava una seconda volta, in filosofia, con una tesi su Il fondamento morale e religioso della azione di Gandhi[6].

Lo stesso Borsa ha spiegato le origini del suo interesse per Gandhi, sia in conversazioni personali con i suoi discepoli, sia nell’introduzione all’edizione del 1983 della sua biografia del Mahatma. «Erano – anche quelli – ‘anni di piombo’.» scriveva Borsa, paragonando gli anni del terrorismo brigatista agli anni Trenta. «La maggioranza degli italiani era in preda alla retorica fascista o badava al suo particulare. Noi eravamo un piccolo gruppo di studenti universitari collegati con ‘Giustizia e Libertà’ e ci sforzavamo, con pochissimo successo, di promuovere una qualche manifestazione di pubblico dissenso, come quando cercammo (finendo subito a San Vittore) di trascinare il loggione della Scala in una dimostrazione a favore di Arturo Toscanini, che era poco prima stato bastonato dai fascisti per non aver voluto dirigere Giovinezza ad un concerto. La gente non ne voleva sapere; e proprio in quegli anni, Gandhi era riuscito a indurre più di cinquantamila persone a farsi volontariamente incarcerare violando, con un gesto simbolico, la legge britannica sul monopolio del sale.» «Da dove traeva questo piccolo uomo così fragile ed indifeso, sgangherato nell’aspetto, tanta forza morale e tanta capacità di suggestione e di persuasione? – si chiedeva Borsa. E continuava dicendo – È così che incominciai a interessarmi a lui e, per rispondere a questa domanda, alla vigilia del conflitto, scrissi la sua biografia»[7].

È indubitabile, quindi, che gli interessi culturali di Borsa fossero solidamente basati sulle sue idee politiche. Tali idee, però, non derivavano originariamente e solo dall’esempio gandhiano, ma, come si è già detto, dall’ambiente familiare e, come lo stesso Borsa ricorda nel brano appena citato, dalle frequentazioni dei circoli antifascisti milanesi. Fu in questo ambito che Giorgio Borsa incontrò, per venirne poi profondamente influenzato, il filosofo Piero Martinetti.

Un nome ormai dimenticato dai più, quello di Piero Martinetti (1872-1943) merita di essere ricuperato dall’oblio, per il semplice fatto che egli fu uno dei 12 professori universitari italiani che, nel 1931, rifiutò il giuramento di fedeltà al Fascismo, perdendo di conseguenza il proprio posto di lavoro[8]. Borsa, sempre avaro di notizie sulla sua vita personale, non ricordò mai, almeno a chi scrive (che, tuttavia, lo frequentò assiduamente lungo un arco temporale di circa trent’anni), il suo sodalizio con Martinetti. È tuttavia chiaro che – come puntualizzato da Pier Giorgio Zunino – questo sodalizio vi fu e fu importante. Esso è attestato soprattutto da due tracce. La prima si trova nel primo libro di Borsa, quel Gandhi e il risorgimento indiano, che nacque dalla rielaborazione della sua seconda tesi di laurea[9]. Qui, la conclusione del libro si soffermava sulla filosofia politica di Gandhi e si chiudeva riproponendo il giudizio di Martinetti su Gandhi, tratto da una raccolta di scritti del filosofo, pubblicata nel 1926[10].

Che la frequentazione di Martinetti da parte di Borsa non fosse episodica, risulta ancora più chiaramente dal fatto che, nel 1951, a pochi anni dalla morte di Martinetti, Borsa ne curasse una nuova raccolta di scritti, in parte inediti, a cui premetteva una corposa introduzione[11]. È in questa introduzione che compaiono sia l’unico frammento salvatosi dell’ultima lettera nota di Pietro Martinetti («Io sono sempre stato un filosofo inattuale»[12]), sia una sintetica indicazione di quale fosse stato il ruolo intellettuale di Martinetti ancora nell’ultima parte della sua vita, quando era stato allontanato dall’insegnamento universitario a causa del suo mancato giuramento di fedeltà al Fascismo. «Negli ultimi anni – scrive Borsa a proposito di Martinetti – ormai lontano ed estraneo al mondo accademico, riunì idealmente intorno a sé una comunità di amici devoti, quasi un collegium di discepoli con cui continuava, soprattutto per lettera, i discorsi interrotti dalla cattedra»[13]. Si trattava di un collegium di discepoli di cui – come evidenziato dalle ricerche di Pier Giorgio Zunino – facevano parte nomi illustri dell’intellettualità italiana, da Gioele Solari a Norberto Bobbio. E, anche, di un circolo di persone con ben precise connotazioni politiche, se è vero, come ricordato da Diego Fusaro, che Martinetti finì in carcere dal 15 al 20 maggio 1935 «per la sua sospetta corrispondenza con intellettuali invisi al regime, in particolare con alcuni esponenti del movimento clandestino ‘Giustizia e Libertà’ di cui naturalmente non fece mai parte»[14].

A questo collegium di amici e di discepoli di Martinetti apparteneva, evidentemente, Borsa, com’è chiaro dal fatto che, come ricordato dallo stesso Borsa, i due fossero legati da una corrispondenza epistolare. Si può ipotizzare che la frequentazione del filosofo abbia avuto un ruolo nell’indirizzare Borsa definitivamente verso lo studio delle civiltà extra europee. Infatti, vi era un chiaro interesse da parte di Martinetti per la filosofia indiana, tanto che la sua prima opera filosofica, pubblicata nel 1897 e frutto della rielaborazione della tesi di laurea (conseguita a Torino nel 1893), era una monografia su un sistema filosofico indiano, il Sāṃkhya[15]; inoltre, i riferimenti alla filosofia indiana, parte del bagaglio filosofico di Martinetti, e presenti negli scritti del filosofo, erano noti a Borsa (che li cita, ad es., nella sua introduzione agli scritti di Martinetti[16]). Ma, ad avere un ruolo più importante nella formazione intellettuale di Borsa, più che le suggestioni degli studi sulla filosofia indiana fu, indubbiamente, il fatto che Martinetti fosse «una singolare figura di intellettuale ‘laico’, distante tanto dalla filosofia accademica ufficiale, l’attualismo di Giovanni Gentile, quanto dalla caleidoscopica mappa politico-religiosa imperante, ovvero la chiesa cattolica da una parte, i neonati fascisti e le opposizioni socialiste e comuniste dall’altra.» Un intellettuale, insomma, che «non si preoccupa[va] di apparire favorevole all’uno o all’altro schieramento in campo»[17].

È questo un giudizio che si può riproporre, mutatis mutandis, a proposito dello stesso Borsa. Borsa era, infatti, un laico, un antifascista, un progressista e una persona che si tenne lontana sia dalle posizioni dei cattolici sia da quelle dei marxisti, quando, nei decenni successivi al secondo dopoguerra, queste due correnti culturali e politiche erano dominanti in Italia. Coerentemente col suo passato in ‘Giustizia e Libertà’, egli si considerava un liberale, ma un liberale nel significato anglo-sassone del termine. Da questa posizione culturale e politica discendeva, da parte di Borsa, la totale e sincera apertura alla discussione, al confronto intellettuale e un dialogo scevro da pregiudizi con persone con idee politiche anche profondamente diverse dalle sue. Che tale atteggiamento metodologico, di cui chi scrive può dare testimonianza diretta, non fosse superficiale ma facesse parte della personale visione del mondo di Giorgio Borsa è testimoniato dal fatto che uno degli allievi a lui più vicini, Enrica Collotti Pischel, fosse persona di idee politiche diversissime dalle sue: non solo una marxista dura e pura, ma, a tutti gli effetti, un intellettuale organico del PCI.

È sulle basi culturali e politiche fin qui ricordate che Borsa svolse il suo ruolo di filosofo prestato alla storia dell’Asia moderna e contemporanea. Borsa era entrato nell’ambito degli studi storici sull’Asia nel 1942, con la pubblicazione del già citato Gandhi e il risorgimento indiano e, per quanto, come si è visto, questo passaggio non fosse allora ancora definitivo, lo divenne nel decennio successivo[18]. A partire dagli anni Cinquanta, Borsa studiò la storia dell’Asia dal punto di vista delle relazioni internazionali[19]; successivamente, pur senza mai abbandonare i suoi interessi per la storia delle relazioni internazionali[20], esaminò quelli che considerava i tre paesi chiave dell’Asia Orientale – Cina, Giappone e India – soprattutto dal punto di vista della storia politica, sociale ed economica. Fu negli anni Cinquanta e Sessanta che Borsa elaborò la sua teoria della modernizzazione, che trovò piena espressione nella maggiore delle sue opere, La nascita del mondo moderno in Asia Orientale, probabilmente il più importante libro scritto sulla storia dell’Asia da uno studioso italiano nella seconda metà del ‘900[21].

Ripercorrere la teoria della modernizzazione borsiana sarebbe interessante, ma, strictu sensu, esula dalla tematica di questo scritto[22]. Quello che è qui importante sottolineare, prima di tornare alla storia di «Asia Maior», è il fatto che Borsa si trovò ad operare in un mondo, quello dell’orientalismo italiano, che era profondamente impregnato di conservatorismo metodologico e politico e che, ancora nei primi decenni del secondo dopoguerra, era profondamente segnato e condizionato dalle sue compromissioni col Fascismo[23]. In questo contesto, Borsa e i suoi discepoli rappresentarono una corrente profondamente diversa da quella dominante; una corrente minoritaria, ma viva; non solo innovativa sul piano metodologico (almeno per quanto riguardava la situazione culturale italiana), ma, sia pure nelle evidenti differenze ideologiche che contraddistinguevano i suoi membri, caratterizzata da una visione del mondo laica, progressista e antifascista.

È quindi dalle idee metodologiche di Borsa, dalla Weltanschauung che era alla base della sua scuola e dallo sforzo collettivo di studiosi che, originariamente, erano quasi esclusivamente parte di tale scuola che nacque «Asia Maior» o, meglio, come allora venne chiamata, «Asia Major»[24].

Inizialmente i volumi annuali vennero pubblicati grazie all’appoggio dell’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale) di Milano; nel 1994, tuttavia, vi fu una sorta di divorzio fra l’ISPI e Borsa (a dir la verità, non il primo nella storia dei rapporti fra i due); un evento che, in un primo tempo, sembrò destinato a porre prematuramente termine all’impresa. Nel 1995, tuttavia, le pubblicazioni ripresero, grazie all’appoggio del CeSPEE (Centro Studi per i Popoli Extra-Europei «Cesare Bonacossa»), dell’Università di Pavia.

Borsa, quando lanciò «Asia Maior», aveva poco meno di ottant’anni (era nato nel 1912); ciò nonostante, fino all’anno prima della sua morte (avvenuta nel 2002), svolse un ruolo di leadership intellettuale assolutamente dominante e indiscusso, scrisse i capitoli sulla Cina nei primi quattro volumi (fino a quello del 1994), svolse il ruolo di curatore del volume, in genere con l’aiuto di un suo discepolo[25], e scrisse la prefazione di tutti i volumi fino a quello pubblicato alla vigilia della sua morte. La scomparsa di Borsa, per quanto dolorosa sul piano personale per i suoi discepoli e amici, non giunse inaspettata, non solo data la sua età, ma anche perché, circa un anno prima della sua morte, la sua salute aveva subìto un drastico peggioramento, tale da costringere Borsa ad una radicale riduzione della sua attività. Questo significa che un piccolo nucleo di collaboratori di «Asia Maior» si era da tempo preparato alla transizione, fra l’altro sviluppando, su impulso soprattutto di chi scrive, una sorta di leadership collettiva. Questa, negli ultimissimi anni della vita di Borsa, già, in pratica, si era fatta carico di sostituirlo in gran parte del lavoro di curatela (anche se l’ultima parola in casi controversi e l’onere di scrivere la presentazione del volume annuale rimasero a lui fino alla fine). Il fatto che alla morte di Borsa seguisse, di lì ad alcuni mesi, quella di Enrica Collotti Pischel rese la transizione più difficile, ma non insuperabile. Con l’appoggio del direttore del CESPEE, Marco Mozzati (egli stesso un discepolo di Borsa), la pubblicazione del volume proseguì sotto la direzione di una sorta di triumvirato, che si era formato già negli anni precedenti alla scomparsa di Borsa, e che era composto da Corrado Molteni, da Francesco Montessoro e da chi scrive.

A interrompere la prima serie di «Asia Maior» fu il fatto che nel 2005, dopo due successivi e rapidi cambiamenti al vertice del CESPEE, il nuovo direttore, adducendo sopravvenute difficoltà finanziare, manifestò l’indisponibilità del Centro a continuare la pubblicazione di «Asia Maior» secondo le modalità e le scadenze fino a lì seguite. Quello che veniva proposto era un controllo più stretto da parte del Centro sui lavori di «Asia Maior» a cui si accompagnava una vaga disponibilità a pubblicare saltuariamente su «Il Politico», la rivista politologica dell’Università di Pavia, una selezione dei saggi che sarebbero stati prodotti dai membri del gruppo.

La proposta venne giudicata inaccettabile e portò alla decisione da parte del gruppo dei collaboratori «storici» di trasformare «Asia Maior» da associazione informale, quale era stata fino a quel momento, ad associazione formalmente registrata presso un notaio. Il fine era quello di ricercare finanziamenti da altre fonti, che per- mettessero la continuazione della pubblicazione del volume annuale, secondo le modalità volute da Borsa.

La costituzione di «Asia Maior» in associazione formale avvenne il 5 ottobre 2005; a questo si accompagnò un generoso supporto finanziario offerto dal Ministero degli Esteri, che, nel 2006, permise la ripresa delle pubblicazioni con un volume doppio[26]. Da allora la nuova serie ha regolarmente mantenuto la propria scadenza annuale.

Ciò non toglie che, da allora, la nuova «Asia Maior» abbia dovuto confrontarsi con due problemi non piccoli. Il primo è rappresentato dal graduale inaridirsi delle risorse economiche necessarie a proseguire la pubblicazione. L’appoggio economico del ministero degli Esteri, come conseguenza dei tagli ai propri bilanci subìti negli scorsi anni, è radicalmente diminuito nel corso del tempo. D’altra parte, il tentativo di ottenere sovvenzioni da altre fonti si è finora rivelato vano. Il che è una dimostrazione di come, al di là della retorica sulla crescente importanza dell’Asia e sulla necessità per l’Italia di agganciarsi alle nuove locomotive economiche, rappresentate da paesi quali la Cina e l’India, nel mondo imprenditoriale italiano la ricerca è considerata, a tutti gli effetti, un orpello inutile. Si può anche indossarlo, se lo si può fare a titolo gratuito; ma, chiaramente, è giudicato qualcosa per cui non merita di spendere, neppure cifre che, paragonate ai bilanci complessivi di alcune delle organizzazioni a cui «Asia Maior» si è rivolta, non sono nulla di più che gocce d’acqua in un oceano. Per quanto «Asia Maior» non si sia scoraggiata – e continui nella ricerca di mecenati che abbiano interesse nell’approfondimento della conoscenza della realtà politica ed economica dell’Asia – nel fare questo bilancio del primo ventennio dell’impresa voluta da Giorgio Borsa non si può fare a meno di manifestare, da questo punto di vista, una certa preoccupazione sul futuro.

Il secondo problema con cui ha dovuto confrontarsi la nuova «Asia Maior» è legato al fatto che, dopo la scomparsa di Borsa e, soprattutto, in seguito al divorzio fra «Asia Maior» e il CESPEE di Pavia, era aumentato il numero di collaboratori che non facevano parte dell’originario gruppo dei discepoli dello stesso Borsa e che, in ogni caso, non erano stati influenzati né dalla sua Weltanschauung, né dalla sua metodologia. Si trattava di un gruppo che auspicava un ripensamento della struttura del volume e delle attività dell’associazione alla luce delle necessità e dei desiderata di ipotetici, quanto fantomatici, «committenti». Di fronte alla scelta della maggioranza dei soci di proseguire lungo la linea della continuità con il progetto di Borsa, coloro che ne auspicavano l’abbandono hanno deciso di lasciare «Asia Maior».

È stato, l’evento in questione, la dimostrazione del detto cinese secondo cui una crisi è anche un’opportunità. Nel caso di «Asia Maior», il primo risultato raggiunto è consistito nel ribadire, ancora una volta, la validità delle linee culturali e politiche fissate a suo tempo da Giorgio Borsa; il secondo risultato, che può essere verificato in prima persona da tutti i lettori di questo volume, è che il rinnovamento nei collaboratori di «Asia Maior» si è tradotto non in un abbassamento, ma in un innalzamento del livello qualitativo della produzione scientifica dell’associazione.

A conclusione di queste note, nel fare il bilancio di questi primi vent’anni di «Asia Maior» è infine bene sottolineare il conseguimento di due risultati, di non poca importanza. Il primo è il fatto stesso che, nonostante tutte le difficoltà finanziarie e nonostante la caducità delle pubblicazioni periodiche, il volume annuale di «Asia Maior» continui ad uscire. Il secondo è che il rinnovamento stesso dei collaboratori di «Asia Maior» e la loro dimostrata capacità di produrre analisi di livello qualitativo sempre più alto sono prova del fatto che, nonostante la crisi dell’Università italiana in generale e nonostante, in particolare, la situazione di virtuale collasso, in ambito universitario, degli studi sul mondo extra-europeo, in tale area vi siano ancora forze vive e vitali, prevalentemente, anche se non esclusivamente, rappresentate da giovani studiosi. Non per merito delle istituzioni, quindi, bensì dello spirito garibaldino di questi singoli studiosi (in genere condannati dal nostro sistema universitario alla precarietà o all’emigrazione), è ancora possibile portare avanti un’impresa come quella voluta a suo tempo da Giorgio Borsa.

Sia pure fra mille difficoltà, quindi, «Asia Maior» va avanti… Per aspera ad astra!

[1] La formulazione più completa della teoria delle modernizzazione elaborata da Giorgio Borsa è stata fatta nel suo La nascita del mondo moderno in Asia Orientale, Rizzoli, Milano 1977.

[2] Ad es. ibid., p. 10.

[3] Per le idee di Giorgio Borsa sul metodo storico, si veda il suo Introduzione alla storia, Le Monnier, Firenze 1980. Chi scrive ha anche tenuto conto di una serie di conversazioni con Borsa su tale soggetto, svoltesi nel periodo successivo alla pubblicazione del libro appena citato.

[4] Su Mario Borsa si veda Pier Giorgio Zunino, La Repubblica e il suo passato, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 510-13.

[5] In una conversazione con chi scrive, dicembre 2010.

[6] Queste informazioni, raccolte da Pier Giorgio Zunino, nell’ambito di una ricerca volta alla preparazione dell’edizione critica dell’epistolario di Piero Martinetti, e da lui comunicate a chi scrive nel corso di una serie di conversazioni durante il 2010, sono ora riassunte nella nota in calce all’ultima lettera di Piero Martinetti, posta a chiusura dell’epistolario. Si veda Piero Martinetti, Lettere 1919-1943, a cura di Pier Giorgio Zunino e Giulia Beltrametti, Olschki, Firenze 2011, pp. 245-46 e nota 167. In realtà l’ultima lettera di Martinetti non è che un frammento di una missiva indirizzata dal filosofo a Giorgio Borsa, frammento che ci è pervenuto solo perché Borsa lo cita nella sua introduzione ad una raccolta di scritti di Martinetti da lui curata. Si veda inoltre, nota 11.

[7] Giorgio Borsa, Gandhi, Bompiani, Milano 1983, p. 9.

[8] Così come meritano di essere ricordati i nomi degli altri 11 (sui 1.225 professori universitari dell’epoca): Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Bartolo Nigrisoli, Edoardo e Francesco Ruffini, Lionello Venturi, Vito Volterra. Accanto a costoro vi fu poi un certo numero di professori che rifiutarono il giuramento ma furono dispensati e altri ancora che, per non giurare, scelsero il prepensionamento.

[9] Giorgio Borsa, Gandhi e il risorgimento indiano, Milano, Bompiani 1942.

[10] Ibid., p. 299 e nota 1. «Egli [Gandhi] – scriveva Borsa – ha intuito, forse senza neppure rendersene conto, quali sono le ragioni profonde della crisi in cui si dibatte la civiltà occidentale e ha fatto molto per preservare l’India dallo stesso pericolo. Ha intuito che l’attuazione di un ordine sociale e politico giusto e duraturo non dipende dalla riforma di questo o di quell’istituto, dall’adozione di questa o quella teoria economica, dal maggiore o minore benessere materiale raggiunto; ma dalla risurrezione o dalla morte definitiva di un ordine spirituale nell’intimo delle coscienze, dalla capacità dei popoli ad esprimere da sé ancora una volta quelle energie ideali in cui risiede la verità più profonda degli istituti sociali e politici e delle forme del vivere civile.» Questo giudizio, come indicato in nota, era basato su «P. Martinetti, Saggi e discorsi, Paravia, [Torino] 1926, p. 62».

[11] Piero Martinetti, Il compito della filosofia e altri saggi inediti ed editi, con introduzione e commento di Giorgio Borsa, Paravia, Torino 1951.

[12] Cit. in Borsa, Introduzione, ivi, p. XII. La lettera era stata scritta da Martinetti a Borsa. Questo frammento è posto a chiusa dell’epistolario curato da Zunino e Beltrametti.

[13] Ibid., p. X.

[14] Diego Fusaro, Piero Martinetti (http://www.filosofico.net/martinetti.htm). Quel «evidentemente» fa riferimento all’indisponibilità di Martinetti a limitare la propria libertà di giudizio accettando le indicazioni di un partito o di una chiesa.

[15] Piero Martinetti, Il sistema Sankhya. Studio sulla filosofia indiana, Lattes, Torino 1896. Gli indologi utilizzano la grafia «Sāṃkhya», a cui ci atteniamo nel testo.

[16] Borsa, Introduzione cit., p. XI, dove si fa riferimento al Breviario spirituale di Martinetti (Libreria Ed. Lombarda, Milano 1929, p. 23).

[17] Fusaro, Martinetti cit.

[18] Anche se Borsa non perse mai l’interesse per la filosofia, che riprese a studiare in modo sistematico una volta raggiunta l’età della pensione.

[19] Le sue due più importanti monografie di quel periodo furono L’Estremo Oriente fra due mondi: le relazioni internazionali nell’Estremo Oriente dal 1842 al 1941, Laterza, Bari 1961, e Italia e Cina nel secolo XIX, Edizioni di Comunità, Milano 1961.

[20] In effetti, l’ultima monografia da lui pubblicata fu una ricerca di relazioni internazionali. Si veda Giorgio Borsa, Dieci anni che cambiarono il mondo, 1941-1951: storia politica e diplomatica della guerra nel Pacifico, Corbaccio, Milano 1995.

[21] Si veda la nota 1.

[22] In ogni caso, chi scrive si è in più occasioni soffermato su di essa. Si vedano: Michelguglielmo Torri, Studies in Italy on Modern and Contemporary India, in Storia della Storiografia/History of Historiography, 34, 1998, pp. 119-51; id., L’Indianistica italiana dagli anni Quaranta ad oggi, in Agostino Giovagnoli e Giorgio Del Zanna (a cura di), Il mondo visto dall’Italia, Guerini e associati, 2004, pp. 247-263; e id., Eurocentrismo, asiacentrismo e orientalismo. La critica di Giorgio Borsa, in «Contemporanea», XI, 1, gennaio 2008, pp. 115-122.

[23] Ben evidenti anche nel caso del più eminente fra gli orientalisti italiani, Giuseppe Tucci (Macerata, 5 giugno 1894 – San Polo dei Cavalieri, 5 aprile 1984). Sulla figura di Tucci e sulle sue compromissioni col Fascismo sta per comparire un’importante biografia ad opera di Enrica Garzilli. Si veda Enrica Garzilli, L’esploratore del Duce. Le avventure di Giuseppe Tucci e la politica italiana in Oriente da Mussolini a Andreotti. Con il carteggio di Giulio Andreotti, Le Lettere, Firenze (in corso di stampa).

[24] Secondo Marco Mozzati, uno degli allievi di Borsa, anche se un africanista, la trasformazione della «i» di «Maior» in «j» fu frutto di un errore tipografico compiuto dalla casa editrice (il Mulino) in occasione della pubblicazione del primo volume. In seguito, per ragioni di continuità, Borsa avrebbe deciso di utilizzare la nuova grafia. La verità, però, sembra essere differente, dato che era abitudine di Borsa utilizzare la grafia con la «j», già molto prima della pubblicazione del primo volume di «Asia Maior». Questo risulta in maniera incontrovertibile dalla Prefazione del suo La nascita del mondo moderno cit., p. 7 («È questo il caso dell’Asia major nell’ultimo trentennio…»). D’altra parte è innegabile, come può testimoniare chi scrive, che l’«Asia Maior» era definita da Borsa come quella parte di Asia che esisteva oltre l’«Asia Minor» degli antichi. In altre parole, «Asia Maior» dovrebbe essere la riproposizione di una definizione geografica presa dal mondo classico greco-romano, ma la «j» non compare né nell’alfabeto greco, né in quello latino. È quindi probabile che la dizione «Asia Major» sia stata frutto di un errore dello stesso Borsa, dovuto all’ingresso inavvertito nel suo lessico di un inglesismo, poi utilizzato nell’intitolare il primo volume della serie. La spiegazione data da Marco Mozzati va quindi rettificata nel senso che l’errore vi fu, ma fu commesso da Borsa. È possibile che Borsa – che, del resto, era in genere molto attento ad evitare gli inglesismi – si sia poi reso conto che la dizione «Asia Major» non fosse corretta, ma che, come riferito da Mozzati, decidesse di continuare ad usarla per ragioni di continuità. In effetti, la scelta in questione era criticabile anche da un altro punto di vista, cioè in base al fatto che esisteva già un’altra «Asia Major». «Asia Major», infatti, era – ed è – anche il titolo di una rivista, dedicata allo studio della Cina e del mondo cinese, fondata nel 1923, in Germania, da Bruno Schindler (1882-1964). Tale rivista venne lì pubblicata fino al 1933, quando le leggi razziali costrinsero Schindler (che era un ebreo) a fuggire dalla Germania e a porre fine alla prima serie della sua «Asia Major». La pubblicazione venne ripresa da Schindler in Inghilterra, a partire dal 1949, sotto gli auspici dell’Università di Cambridge, e continuò anche dopo la morte di Schindler, fino al 1975. In quell’anno, le difficoltà economiche che colpirono il mondo universitario britannico posero fine anche alla seconda serie della rivista. Questa, però, venne ripresa nel 1988 da Denis Twitchett, sotto gli auspici dell’Università americana di Princeton. Essa, quindi, era regolarmente pubblicata quando venne inaugurata l’«Asia Major» italiana. Nel 1998, di nuovo a causa di difficoltà economiche, la pubblicazione dell’«Asia Major» fondata da Schindler passò all’Institute of History and Philology dell’Academia Sinica di Taipei, dove, da allora, ha continuato ad essere pubblicato sotto la guida di Tu Cheng-sheng, il direttore dell’Istituto. Nel circolo dei più stretti collaboratori di Borsa, posso testimoniare che Paolo Beonio Brocchieri (che curò insieme a Borsa i primi volumi di «Asia Maior») era al corrente dell’esistenza di un’altra «Asia Major», ragion per cui non poteva non esserne al corrente anche lo stesso Borsa.

[25] Nei primi due volumi, il co-curatore fu Paolo Beonio Brocchieri, che Borsa considerava apertamente il proprio erede. Disgraziatamente, Beonio Brocchieri, nato nel 1934, scomparve prematuramente nel 1991.

[26] È interessante notare, anche se duole doverlo fare, che, una volta avviata quella che possiamo definire la nuova serie di «Asia Maior», il CESPEE dell’Università di Pavia, che si era dichiarato inabile a mandare avanti la vecchia «Asia Major» a causa della mancanza di risorse economiche, trovò allora i finanziamenti necessari a riprendere le pubblicazioni, iniziando un’altra serie di «Asia Major». Questa manteneva il nome della vecchia serie (dato che «Asia Major», con la «j», era un marchio di proprietà dell’Università di Pavia), ma si discostava totalmente sia nell’impostazione, sia nell’area geografica di riferimento (la totalità dell’Asia più l’Africa) dall’«Asia Major» di Giorgio Borsa.

 

 

Giorgio Borsa

The Founder of Asia Maior

Università di Pavia

The "Cesare Bonacossa" Centre for the Study of Extra-European Peoples

THE RISE OF ASIA 2021 – CALL FOR PAPERS