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Pakistan: un anno nero per Zardari

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1. Premessa

 

Il periodo in analisi (1 ̊ gennaio – 31 dicembre 2010) è stato caratterizzato da una delle peggiori alluvioni mai verificatesi in Pakistan, che ha innescato una grave crisi umanitaria la cui gestione metteva a dura prova le istituzioni.

Le ricadute politiche delle numerose critiche sollevate all’indirizzo del presidente della Repubblica Islamica del Pakistan, Ali Asif Zardari, relative alle tardive ed inadeguate operazioni di soccorso, hanno alimentato il dibattito circa la necessità di un avvicendamento alla guida del paese.

Durante il periodo analizzato, si rafforzava l’impressione che le forze armate, comandate dal generale Ashfaq Pervez Kayani, si facessero promotrici di tale cambiamento nonostante che, dall’uscita di scena del generale Pervez Musharraf, non avessero interferito apertamente con le attività istituzionali.

In previsione delle elezioni del 2013, o di possibili avvicendamenti, e successivamente all’approvazione di un emendamento costituzionale che riduceva sensibilmente i poteri del presidente, si notavano alcuni tentativi dell’opposizione – seppur poco incisivi – di screditare Zardari. Lo stesso Pervez Musharraf si dichiarava interessato a rientrare attivamente nella vita politica pachistana dopo aver lasciato la carica di capo delle forze armate nel 2007 e, l’anno successivo, quella di presidente della repubblica. Infatti, dal suo esilio a Londra, il 1 ̊ ottobre del 2010 Musharraf annunciava la formazione del nuovo partito politico All Pakistan Muslim League.

Continuavano anche i dissapori tra Ali Asif Zardari ed il capo della corte suprema, il giudice Iftikhar Muhammad Chaudhry. I due avevano nuovi scontri dai quali scaturivano tensioni che minacciavano di paralizzare le istituzioni del paese e di metterne a repentaglio la stabilità [W/NYT 18 febbraio 2010, «Pakistani Backs Down in Conflict With Judge»]. Il chief justice chiedeva la riapertura di un vecchio caso di corruzione e di riciclaggio di denaro, di competenza delle autorità svizzere, che vedeva indagato il presidente della repubblica. Questi rischiava di dover rinunciare all’immunità garantita alla massima carica istituzionale dall’NRO (National Reconciliation Ordinance), promulgato da Musharraf nel 2007 ed adesso giudicato anti giuridico dall’organo supremo della magistratura [AM 2009, p. 71].

La debolezza del governo – per la verità considerata una caratteristica endemica dell’amministrazione Zardari -, esacerbata dal crollo dei consensi a seguito della crisi umanitaria, era dunque un incentivo destinato ai partiti dell’opposizione e alla magistratura per sfruttare il momento propizio per spodestare il presidente.

Un altro scottante problema era la ripresa della violenza nella capitale del Sind, Karachi, che si sovrapponeva agli oltranzismi che affliggono il Pakistan e che aveva un risvolto politico preoccupante per Zardari. Gli Stati Uniti confermavano l’alleanza strategica con il Pakistan, ma anche nel 2010 le relazioni bilaterali erano segnate da tensioni causate dall’inefficacia delle operazioni anti terroristiche del governo di Islamabad. Analogamente, nel periodo in analisi, non si registravano sviluppi sostanziali nelle relazioni internazionali tra Pakistan ed India.

Le conseguenze dell’alluvione riguardavano anche la politica estera ed economica. La crisi umanitaria imponeva al governo di Islamabad di dirottare nella ricostruzione gran parte dei prestiti ricevuti dalla comunità internazionale per programmi di sviluppo e lo obbligava anche ad accettare nuovi aiuti, che andavano così ad aumentare vertiginosamente il debito estero nazionale.

2. Il «diciottesimo emendamento»

Il 2 aprile 2010, il governo di Islamabad presentava al parlamento un pacchetto di riforme costituzionali (il «diciottesimo emendamento») atte a salvaguardare l’ordinamento statutario, a ripristinarne lo spirito fondativo, a promuovere i diritti originari della costituzione violati dal «diciassettesimo» emendamento introdotto dal generale Musharraf nel 2003 e ad affrontare alcune pressanti rivendicazioni provinciali [AM 2004, p. 55]. Le modifiche della carta costituzionale erano approvate all’unanimità dall’assemblea nazionale pachistana l’8 aprile 2010, dal senato la settimana successiva e ratificate da Zardari il 19 aprile seguente [W/D 9 aprile 2010, «NA unanimously adopts 18th Amendment»; W/D 16 aprile 2010, «Senate approves 18th Amendment bill»]. L’emendamento ripristinava un equo bilanciamento tra i poteri istituzionali, conferendo alla carica presidenziale un ruolo per lo più cerimoniale. In buona sostanza, esautorava la presidenza dagli ampi poteri esecutivi e legislativi che i governi militari avevano accentrato nella massima carica istituzionale nell’arco di diversi anni. La riforma, per esempio, impediva al presidente di revocare il mandato al premier, di sciogliere il parlamento e di nominare le alte cariche delle forze armate. Inoltre, erano introdotti alcuni meccanismi di tutela costituzionale contro futuri colpi di mano militari. Era sancita l’illegittimità della convalida giudiziaria di sovvertimenti costituzionali e l’esecutivo era esautorato dal potere di nominare i giudici, compito adesso attribuito a commissioni indipendenti, giudiziarie e parlamentari.

Il pacchetto di riforme costituzionali assicurava anche concessioni sostanziali alle province aventi aspirazioni indipendentistiche: NWFP (North West Frontier Province), Belucistan e Sind. In seguito alle pressanti richieste, il governo di Islamabad accettava di rinominare Khyber-Pakhtunkhwa (KP) l’NWFP. Si trattava di una decisione importante, tanto dal punto di vista simbolico, giacché assecondava antiche rivendicazioni etniche dei pashtun, quanto da quello pratico, poiché presa in un momento in cui era essenziale che il governo si assicurasse il sostegno dei gruppo tribali della provincia nord occidentale al fine di controllare la militanza nelle zone di frontiera con l’Afghanistan. In una prospettiva più ampia, il provvedimento costituiva un precedente per altre rivendicazioni subnazionalistiche all’interno dei confini nazionali.

Infine, alle province erano garantite concessioni degne di nota in merito alla distribuzione delle risorse energetiche: la proprietà dei giacimenti di petrolio e di gas era attribuita, infatti, oltre che allo stato anche alle province, a cui, inoltre, sarebbe andato il compito, congiuntamente con lo stato, di selezionare i siti di estrazione.

3. L’alluvione e le sue conseguenze

In seguito alle eccezionali precipitazioni monsoniche che interessavano il KP, il Belucistan ed il Punjab, la peggiore alluvione degli ultimi decenni colpiva il Pakistan dal 22 luglio del 2010. Il disastro iniziava nel nord del paese, dove inondazioni e smottamenti devastavano largamente il KP e, in misura minore, alcune aree delle FATA (Federally Administered Tribal Areas), del Baltistan e dell’Azad Kashmir, causando circa 800 vittime.

Dopo oltre un mese dalle prime alluvioni, le esondazioni del fiume Indo e dei suoi affluenti iniziavano ad interessare le province meridionali del Sind e del Belucistan. Il principale corso fluviale del Pakistan rompeva gli argini nel Sud del paese, nel distretto di Thatta, nei pressi di Karachi, dove l’omonima città era evacuata. In seguito, esondava il vicino lago Manchar, sommergendo le zone del distretto di Jamshoro nel Sind. Solo allora il governo pachistano dichiarava lo stato di emergenza nazionale, coordinando evacuazioni di massa dalle aree a rischio [W/IHT 23 agosto 2010, «Floods force thousands from homes in Pakistan»].

Le critiche sollevate all’indirizzo del governo a causa dei ritardi e dell’inefficienza nelle operazioni di salvataggio investivano improvvisamente Zardari. Il presidente comprometteva sensibilmente la propria immagine pubblica disattendendo le aspettative di immediato rientro da un viaggio ufficiale in Europa, iniziato all’indomani delle alluvioni.

Le Nazioni Unite stimavano che, oltre alle 1.700 vittime e ai circa cinque milioni di sfollati, le alluvioni avessero complessivamente interessato oltre 20 milioni di persone in un’area di almeno 160.000 chilometri quadrati. Oltre due milioni di abitazioni erano rase al suolo o seriamente danneggiate, metà delle quali nel Sind dove, a quasi due mesi dall’inizio delle alluvioni, le aree sommerse erano ancora molte; oltre 5.000 chilometri di strade erano rese inagibili dal disastro e 7.000 scuole erano distrutte, mentre si stimava che circa 200.000 animali domestici fossero affogati [W/E 18 settembre 2010, «Pakistan: After the deluge»]. La perdita delle abitazioni e delle tradizionali forme di sostentamento (bestiame, agricoltura, sistemi d’irrigazione, ecc.) di gran parte della popolazione comprometteva le prospettive di sviluppo nazionale, vincolando inesorabilmente un elevato numero di famiglie, e per molti anni a venire, agli aiuti loro erogati.

La risposta dei paesi donatori si faceva attendere, probabilmente a causa della lenta progressione del disastro e del numero comparativamente limitato delle vittime che portavano a sottovalutarne l’entità. I primi interventi (come riportato più avanti nel paragrafo riguardante l’economia) erano quindi opera della Banca Mondiale (BM) e dell’Asian Development Bank (ADB).

La grave emergenza umanitaria imponeva all’amministrazione di Obama un ripensamento dell’allocazione del pacchetto di aiuti approvato nell’ottobre del 2009 verso necessità più impellenti [AM 2009, p. 75]. Gli Stati Uniti stanziavano ulteriori 250 milioni di dollari, l’Arabia Saudita 106, l’Unione Europea 30 e, poco alla volta, quando le dimensioni della catastrofe si facevano evidenti, la comunità internazionale si impegnava in maniera più tangibile. Il 17 settembre del 2010, l’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) lanciava un accorato appello umanitario, chiedendo ai propri stati membri di donare complessivamente due miliardi di dollari – la richiesta più alta nella sua storia – da destinare ai progetti di ricostruzione e di sviluppo in Pakistan [W/RW 17 settembre 2010, «Pakistan: largest ever disaster appeal for flood victims»]. Infatti, si rendeva necessario un piano di lungo periodo che evitasse alle aree in questione di essere abbandonate a loro stesse o al puro assistenzialismo. Inoltre, gli Stati Uniti ritenevano che l’attuazione di tale piano avrebbe contenuto il consenso che alcune organizzazioni caritatevoli locali, aventi sospetti legami con i militanti islamisti, stavano rapidamente guadagnando nel garantire servizi ed aiuti agli alluvionati [W/IHT 5 agosto 2010, «Flooding in Pakistan»].

Il fatto che il governo di Islamabad e l’esercito pachistano distogliessero la propria attenzione dalla lotta agli estremismi per concentrare i propri sforzi sulle operazioni umanitarie era un ulteriore motivo di preoccupazione a Washington [W/IHT 20 agosto 2010, «U.S. reassesses plans for Pakistan»]. I timori erano effettivamente fondati, tanto che alcuni gruppi talibani si riformavano a Mohmand, una zona tribale nei pressi del confine con l’Afghanistan di cui l’esercito aveva recentemente ripreso il controllo.

La gestione della crisi umanitaria inaspriva le tensioni esistenti tra la leadership politica del Pakistan e l’esercito ed esponeva Zardari ed il premier Yusuf Raza Gillani alle pubbliche accuse di inettitudine e di corruzione avanzate dal generale Kayani. Le forze armate, che rimanevano l’istituzione più rispettata in Pakistan, con la capacità di svolgere una funzione di arbitro fra i vari poteri dello stato, esercitavano una forte pressione sulle massime cariche istituzionali nazionali e – pur senza minacciare un colpo di mano – le sfidavano apertamente. Kayani chiedeva che alcuni ministri del governo federale – sui quali pendevano accuse di corruzione – fossero destituiti, attaccando così indirettamente Zardari, il quale era al riparo da un processo con lo stesso capo di accusa solo grazie all’impunità garantita al presidente della repubblica dalla già ricordata National Reconciliation Ordinance [W/NYT 28 settembre 2010, «Generals in Pakistan Push for Shake-Up of Government»].

4. La militanza nel Nord-ovest

Il 14 gennaio del 2010, fonti dei servizi segreti statunitensi riportavano la notizia della morte di Hakimullah Mehsud, successore di Baitullah Mehsud alla guida dei talibani pachistani del TTP (Tehrik-e-Taliban Pakistan, un’organizzazione che raduna una decina di gruppi militanti) [AM 2009, pp. 69-70]. Così come il predecessore, Hakimullah sarebbe stato vittima dell’attacco missilistico di un drone, stavolta a Shaktoi, nel Waziristan Meridionale [W/NYT 1° feb- braio 2010, «Pakistani Taliban leader is reported dead»]. In seguito però, un video girato alla fine dell’aprile del 2010, e ritenuto attendibile dalle autorità pachistane, ritraeva Hakimullah Mehsud vivo, fugando ogni dubbio circa le sue sorti e gli eventuali avvicendamenti al comando dei gruppi talibani in Pakistan.

Nel periodo in esame non solo gli attacchi oltranzistici nelle province di frontiera si succedevano quasi quotidianamente, ma erano anche caratterizzati da un’eccezionale cruenza che questo saggio potrà ripercorrere solo nei suoi tratti più clamorosi.

Il 5 aprile del 2010, un gruppo di militanti islamisti attaccava con ordigni esplosivi e missili il consolato statunitense a Peshawar, uccidendo sei persone e ferendone almeno 20. L’attacco, che era rivendicato dal portavoce dei talibani pachistani e confermava la linea stragista dei militanti islamisti, era seguito da un’altra esplosione, avvenuta nella provincia di Dir durante una cerimonia organizzata dall’ANP (Awami National Party), nella quale erano uccise oltre 40 persone. I militanti islamisti continuavano ad avere agevole accesso a Peshawar, che poteva essere raggiunta facilmente ed impunemente dalle aree tribali. Il numero crescente di attacchi nel capoluogo dell’attuale KP costringeva la comunità internazionale a prendere eccezionali misure di sicurezza e, talvolta, a sospendere le proprie attività.

Come già notato in precedenza, i gruppi militanti riconducibili al TTP ed operativi nel Pakistan del Nord-ovest rafforzavano i propri legami con i gruppi oltranzisti basati in altre aree del paese, in modo particolare nel Punjab. Ciò era confermato dalle indagini che seguivano gli attacchi suicidi coordinati che, il 28 maggio, uccidevano a Lahore quasi 100 appartenenti al movimento Ahmadiyya, una minoranza religiosa che ha circa due milioni di adepti in Pakistan. L’Ahmadiyya era stata dichiarata eretica negli anni Settanta e fatta oggetto di persecuzioni talvolta violente. Secondo gli inquirenti, gli attentati erano da ricondurre ai «talibani punjabi», una nuova terminologia che si riferiva non a nuovi gruppi estremisti, ma ad organizzazioni preesisitenti (in modo particolare il Lashkar-e-Janghvi, il Sipah-e-Sohaba Pakistan ed il Jaish-e-Muhammad) che avevano intessuto stretti legami con le frange talibane operative nel KP e con al- Qa‘ida [W/IHT 4 giugno 2010, «Militants are entrenched, Pakistan says»].

Il TTP rivendicava il fallito attentato dinamitardo del 1 ̊ maggio 2010 a Times Square a New York, in seguito al quale era stato arrestato Faisal Shahzad, un pachistano naturalizzato negli Stati Uniti. Sebbene Shahzad dichiarasse di aver agito da solo, la rivendicazione del TTP, che in un video giustificava l’attentato come una rappresaglia contro l’uccisione di Baitullah Mehsud, se attendibile, dimostrerebbe la capacità dell’organizzazione di operare e colpire fuori dai confini pachistani.

Il coordinamento tra l’esercito pachistano ed i servizi segreti statunitensi produceva alcuni importanti risultati nella lotta al terrorismo condotta nelle aree pashtun della divisione di Malakand, nel KP e nelle FATA. Mentre gli Stati Uniti intervenivano facendo uso di droni prevalentemente nel Waziristan del Nord e, sporadicamente, in quello Meridionale, l’esercito pachistano combatteva nella valle dello Swat e nella zona di Bajaur. Le operazioni pachistane, pur riportando le aree in questione sotto il controllo dei militari, non erano veri e propri successi militari, giacché molti comandanti talibani sfuggivano alla cattura e riorganizzavano le proprie milizie altrove. Inoltre, ad operazioni militari concluse, non si registravano iniziative atte alla pacificazione duratura di quei territori né finalizzate al loro sviluppo socio-economico.

Nel frattempo, verso la fine del giugno 2010, iniziava la campagna di re-insediamento di decine di migliaia di sfollati (secondo alcune stime oltre 300.000 persone) che avevano lasciato il Waziristan Meridionale al momento dell’inizio delle operazioni militari nell’ottobre del 2009 [AM 2009, p. 70; EIU 2010, C.R. luglio, p. 12].

5. I disordini di Karachi

Karachi, teatro di violenza etnica, religiosa e criminale negli anni Novanta, tornava al centro delle cronache all’inizio di agosto del 2010, quando era scossa da disordini che causavano oltre 50 vittime. Le sedizioni iniziavano dopo l’uccisione in un attentato di Raza Haider, un eminente politico locale e parlamentare dell’assemblea provinciale, esponente dell’MQM (Muttahida Qaumi Movement), il raggruppamento di maggioranza a Karachi, che rappresenta i musulmani di lingua urdu originari dell’India, rifugiatisi nel Sind dopo la spartizione del 1947. Alla metà del settembre del 2010, l’omicidio di un altro esponente dell’MQM, Imran Farooq, avvenuto a Londra, innescava ulteriori proteste nella megalopoli pachistana. I responsabili ed i mandatari dei numerosi attentati non erano chiari, anche se lo sfondo politico delle attività criminose era da ricollegarsi alla collusione tra i sistemi di potere della metropoli e la mafia locale.

L’MQM accusava l’ANP di fornire protezione a militanti islamisti e criminali, mentre i leader dell’ANP condannavano la strumentalizzazione di cui era oggetto il proprio retroterra etnico-culturale pashtun. Secondo alcune ipotesi, gli omicidi erano riconducibili alle divisioni ed alle rivalità interne all’MQM [W/NYT 17 settembre 2010, «Pakistani’s Death in London Sets Off Unrest»]. Questa eventualità era avvalorata dall’assassinio di Imran Farooq, come ricordato, avvenuto nella Londra dell’esilio di Musharraf e del fondatore dell’MQM, Altaf Hussain, dopo che la vittima aveva manifestato aperture nei riguardi nella nuova iniziativa politica dell’ex generale.

L’escalation della violenza nella capitale del Sind raggiungeva il suo vertice nell’ottobre del 2010, quando, alla vigilia delle elezioni suppletive atte a nominare il successore di Raza Haider ed in soli quattro giorni, erano circa 100 le vittime degli scontri tra sostenitori dell’MQM, dell’ANP e del PPP (Pakistan People Party, il partito di Zardari) [EIU 2010, C.R. novembre, p. 11].

Il governo federale non prendeva iniziative politiche per porre fine agli scontri. Il coinvolgimento dell’MQM nei disordini ed i suoi dissapori con il PPP erano una spada di Damocle per il presidente: l’eventualità che i 25 deputati dell’MQM abbandonassero la coalizione di governo rendeva il ricorso al voto di fiducia in parlamento una possibilità concreta e una minaccia grave per Zardari.

6. Rapporti tra Pakistan e Stati Uniti

Nel febbraio del 2010, il governo di Washington forniva alcuni dettagli relativi al pacchetto di aiuti precedentemente ricordato (pari a 1,5 miliardi di dollari e prima tranche del più ampio programma quinquennale di assistenza del valore di 7,5 miliardi di dollari) [AM 2009, p. 75]. Il piano prevedeva il finanziamento di progetti da realizzarsi in vari settori, quali quello energetico, idrico, economico e delle comunicazioni, quest’ultimo finalizzato a contrastare le campagne mediatiche condotte dagli oltranzisti.

Il 24 marzo successivo, il ministro degli Esteri pachistano, Shah Mehmood Qureshi, ed il capo delle forze armate, il generale Ashfaq Kayani, incontravano a Washington il segretario di stato americano, Hillary Rodham Clinton. L’incontro seguiva quello avvenuto il giorno precedente con i senatori John Kerry e Richard Lugar, gli artefici del progetto di legge che, l’anno prima, aveva stanziato i fondi dedicati al suddetto programma di aiuti. La delegazione pachistana si presentava negli Stati Uniti con una lista di richieste che inclu- devano cooperazione militare (droni, elicotteri ed altri equipaggiamenti), incentivi al commercio, incluso l’accesso agevolato ai mercati d’oltreoceano (in modo particolare per i propri prodotti tessili) e riapertura dei negoziati sulla cooperazione nucleare per usi civili.

Nella seconda metà del luglio 2010, la Clinton si recava in Pakistan e trovava un clima meno ostile di quello che aveva caratterizzato la sua precedente visita, avvenuta meno di un anno prima. In effetti, nell’ambito di una campagna tesa ad abbattere gli scetticismi ed i sentimenti anti americani, gli Stati Uniti presentavano al Pakistan un piano di aiuti economici di oltre 500 milioni di dollari. Ma a pochi giorni dalla conclusione della visita di stato, e dopo che la Clinton aveva definito il Pakistan e gli Stati Uniti «partner accumunati dalla stessa causa», i sospetti nutriti dai detrattori di questa alleanza nei confronti della serietà dell’impegno pachistano nella lotta al terrorismo sembravano essere confermati. Infatti, il 25 luglio 2010, il sito internet WikiLeaks pubblicava un rapporto basato su un’ingente quantità di documenti (oltre 90.000), provenienti da fonti militari, d’intelligence e diplomatiche e fino a quel momento riservati. Il rapporto, dal nome «Il diario della guerra afgana», che documenta minuziosamente i metodi violenti dell’intervento militare americano in Afghanistan, le molte vittime civili, la corruzione dei servizi segreti militari pachistani (in particolare dell’ISI, l’Inter Service Intelligence) e la loro collusione con i fondamentalismi operativi in Afghanistan e in Pakistan, sollevava una polemica internazionale [W/WL, passim].

Sebbene non sempre verificabili, la maggior parte delle informazioni contenute nel rapporto erano ritenute affidabili ed alimentavano le critiche mosse alla politica estera di Obama, propensa a continuare ad investire ingenti risorse nell’alleanza con il Pakistan nonostante le ombre che si addensavano frequentemente sui centri di potere di Islamabad [W/NYT 25 luglio 2010, «Pakistan Aids Insurgency in Afghanistan, Reports Assert»]. La fuga delle notizie contenute negli archivi militari avveniva subito prima della delibera del Congresso in merito al rifinanziamento della missione americana in Afghanistan e in un momento in cui il presidente Barack Obama stava faticando a sviluppare una linea difensiva della propria politica interventista a causa delle oggettive difficoltà incontrate e delle perdite subite dalle truppe americane.

7. Rapporti tra Pakistan e India

L’attentato che nel febbraio del 2010 costava la vita a nove persone a Pune, nello stato del Maharashtra in India, era seguito da pesanti accuse dell’opposizione indiana all’indirizzo del Pakistan e dalla richiesta di annullamento del colloquio bilaterale fissato per il 25 febbraio a Delhi. L’India aveva interrotto le relazioni diplomatiche con il Pakistan all’indomani degli attentati di Mumbai del novembre del 2008. Le accuse contro il governo di Islamabad si riferivano sia alla sua inefficienza nella conduzione delle indagini sui responsabili degli attacchi sia all’incapacità di sradicare il terrorismo dai propri territori. Un’incapacità, quest’ultima, derivante – sempre secondo Delhi – dalle collusioni fra l’ISI con gli oltranzisti islamici [W/NYT 25 febbraio 2010, «In ‘First Step’ India and Pakistan Re- sume Talks»; AM 2008, pp. 80-81].

L’incontro del 25 febbraio 2010, che poi si svolgeva regolarmente, era preceduto dai colloqui informali tra i segretari di stato per gli affari esteri e del Commonwealth, Nirupama Rao e Salman Bashir, durante i quali si discuteva di terrorismo, degli attacchi di Mumbai e della disputa nel Kashmir. L’incontro era assecondato dalla Casa Bianca, che reputava che un clima più disteso nelle relazioni con Delhi avrebbe consentito al governo di Islamabad di concentrare i propri sforzi e risorse nella lotta contro il terrorismo nelle aree di frontiera occidentali. Tuttavia, il summit, sul quale si erano riversate le attese di molti osservatori nazionali ed internazionali, terminava con un sostanziale «nulla di fatto» e senza alcuna indicazione circa possibili riaperture dei dialoghi bilaterali. L’esito dell’incontro era la cartina tornasole della difficoltà di trovare un compromesso tra due posizioni rigide: quella indiana, interessata prevalentemente all’interruzione del presunto sostegno pachistano agli estremismi, e quella di Islamabad, alla ricerca di un dialogo bilaterale più ampio, all’interno del quale delineare il futuro per il Kashmir.

L’offerta di aiuti umanitari del governo di Delhi al Pakistan, per un totale di circa 25 milioni di dollari, non placava i dissapori tra i due paesi. Alla metà di agosto del 2010, l’India accusava le truppe pachistane di aver causato uno scontro a fuoco nei pressi della Linea di Controllo, che divide la zona contesa del Kashmir, violando – sempre a detta degli indiani – il «cessate il fuoco» raggiunto nel 2003 [AM 2003, p. 82].

Il 21 settembre 2010, assemblea nazionale e senato approvavano una risoluzione che condannava, definendola «terrorismo di stato», la politica di Delhi nel Kashmir. Il premier Gillani era uno dei promotori della risoluzione che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale a proposito delle ripetute violazioni dei diritti umani nell’area. La risoluzione, inoltre, reiterava la richiesta del ritiro delle truppe indiane dal «Kashmir occupato», del ripristino della libertà d’informazione e della scarcerazione dei molti detenuti politici. Gillani confermava il sostegno politico, diplomatico e morale del governo pachistano alla «lotta pacifica» dei kashmiri, animata dal diritto all’auto determinazione, così come sancito dalle risoluzioni dell’ONU [W/D 21 settembre 2010, «Parliament lends support to Kashmiris’ struggle»].

8. Economia

Nel febbraio del 2010, l’FMI (Fondo Monetario Internazionale) completava la seconda verifica («revisione») dei risultati parziali ottenuti dal Pakistan rispetto agli obiettivi posti a condizione dell’erogazione del prestito di 7,6 miliardi di dollari concesso nel novembre del 2008 [AM 2008, p. 81]. Il rapporto dell’organizzazione di Bretton Woods indicava la ripresa della crescita economica pachistana, nonostante che il governo di Islamabad non fosse riuscito ad abbattere il deficit fiscale. La tendenza positiva era confermata sia dalla stabilizzazione dei tassi di cambio della rupia pachistana con il dollaro (quest’ultimo era scambiato con 85 rupie) sia dall’aumento delle riserve di valuta estera [EIU 2010, C.R. marzo, p. 13]. La quarta revisione dello stand-by agreement da parte dell’FMI, avvenuta il 14 maggio del 2010, consentiva finalmente il disborso della quarta tranche del valore di oltre un miliardo di dollari, posticipato a causa del ritardo del governo di Islamabad nell’ottemperare alle richieste dell’FMI di introdurre nuovi aggravi fiscali entro l’inizio di luglio del 2010. Il 24 giugno 2010, l’ADB approvava un prestito di 270 milioni di dollari al Pakistan, specificamente per le province del Sind e del Punjab: 120 milioni di dollari erano stanziati per migliorare le opportunità economiche del Sind, mentre 150 milioni erano destinati al miglioramento delle condizioni sanitarie del Punjab [EIU 2010, C.R. marzo, p. 14].

La gravità del disastro naturale dell’agosto del 2010 imponeva al governo di Islamabad di accettare nuovi prestiti dalla BM e dall’ADB per la ricostruzione (rispettivamente uno e due miliardi di dollari), aumentando così il proprio debito estero. Questo, secondo alcune fonti, sarebbe salito da circa 55 milioni di dollari nel luglio del 2010 agli oltre 73 milioni nell’anno fiscale 2015-2016 [EIU 2010, C.R. settembre, p. 11].

Riferimenti bibliografici

AM
2003  «Asia Maior». Le risposte dell’Asia alla sfida americana», Milano, Bruno Mondadori.
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Giorgio Borsa

The Founder of Asia Maior

Università di Pavia

The "Cesare Bonacossa" Centre for the Study of Extra-European Peoples

THE RISE OF ASIA 2021 – CALL FOR PAPERS