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Recensione: Burocrazia della miseria: un’etnografia critica dell’incontro tra Stato e cittadino nell’India postcoloniale

Red Tape: Bureaucracy, Structural Violence and Poverty in India/ Akhil  Gupta – Durham, NC: Duke University Press, 2012, pp. 384 (ISBN: 9780822351108)

Red Tape, il nastro rosso che storicamente lega i documenti ufficiali e rimanda alle pratiche amministrative che li producono, è un importante punto d’arrivo nella bibliografia dell’antropologo Akhil Gupta. Accademico indiano, nato a Jaipur e naturalizzato americano, di formazione tecnico-scientifica (PhD in ingegneria a Stanford), l’autore è oggi una delle massime voci dell’antropologia politica, dello sviluppo e dello Stato in ottica postcoloniale, direttore del “Centre for India and South-Asia” all’Università della California.  Tra i suoi lavori più citati ricordiamo: il saggio Beyond Culture: Space, Identity and the Politics of Difference, 1992, composto con J. Ferguson e manifesto della nascente antropologia critica; l’antologia The Anthropology of the State, 2006, curata insieme ad A. Sharma; l’etnografia della cooperazione Postcolonial Developments: Agriculture in the Making of Modern India, 1997. Nella sua ultima monografia, attingendo dalla ricerca già condotta negli anni Novanta nei block office di Mandi, centro rurale nell’Uttar Pradesh, l’autore esplora i meccanismi burocratici con cui si dispiega il welfare indiano, reo di riprodurre quelle stesse ineguaglianze che si proporrebbe di sradicare.

Denso e provocatorio, Red Tape muove dal quesito paradossale e paradigmatico dell’India contemporanea: “Come è possibile che, nonostante gli sforzi pubblici di inclusione sociale e presa in carico delle fasce deboli, gran parte della popolazione indiana ancora viva in condizioni di estrema povertà?” (p.3). Scardinando invece luoghi comuni e opinioni dominanti su politica, crescita e Stato postcoloniale, le argomentazioni con cui Gupta articola la sua replica interrogano la relazione tra burocrazia e miseria, basandosi su un minuzioso lavoro etnografico (svolto raccogliendo osservazioni e testimonianze tra uffici, funzionari, ispezioni, certificati) e su una lucida analisi delle implicazioni teoriche che ne derivano.

Al cuore della questione si staglia la “violenza strutturale” esercitata dallo Stato sui cittadini, in particolare sulle masse a cui si rivolgono le propagandistiche campagne anti-povertà. Come molti analisti dell’India postcoloniale, Gupta fa leva sull’ipertrofia e frammentazione dell’autorità statale (dove al necessario decentramento subentra il mancato coordinamento dei diversi livelli amministrativi) e sull’arbitrarietà del welfare, anche nella recente transizione da socialismo a neoliberismo. Confrontandosi criticamente con i concetti di “biopotere” e “nuda vita” di Foucault e Agamben, e dialogando con noti teorici contemporanei quali V. Das, M. Lock, D. Fassin e M. Herzfeld, Gupta interpreta i dati empirici indagando le disfunzioni dell’amministrazione statale nella gestione della popolazione, talora dipingendo vignette etnografiche di rara profondità. Tre sono i principali dispositivi burocratici individuati nella global governance indiana: corruption, inscription, governmentality, che danno il titolo ai capitoli centrali del volume.

Il dilagare della corruzione è da tempo riportato nei media come scandaloso emblema dello Stato indiano, che filtra nei discorsi pubblici e nelle chiacchiere quotidiane, alimentando una serie di aspettative collettive su politica, governo e civil servants che ne sono l’espressione. Gupta riferisce cronache di tangenti e mazzette come pratiche routinarie nell’interazione tra cittadini e burocrati, ma anche tra funzionari di diversa gerarchia e status, che mantengono in azione il sistema perverso dell’apparato statale indiano. Senza cedere all’idea sbrigativa di una rapace avidità dei singoli, l’evidenza etnografica narra piuttosto la funzione fàtica e performativa della corruzione spicciola (p.78): metodo per stabilire contatti vantaggiosi e garantirsi beni e servizi altrimenti fuori portata per molti, nonostante le ideologie politiche di sovvenzione e promozione dei bisognosi.

Esplorando il concetto di “iscrizione”, l’autore non si limita a indagare le pratiche di registrazione d’ufficio, ma sonda anche i molteplici usi e significati che la scrittura può assumere nei contesti studiati. In un Paese plurilingue che ancora insegue l’obiettivo di una massiccia alfabetizzazione della popolazione, non solo lo Stato agisce sui cittadini attraverso la parola scritta, talvolta incomprensibile e spesso coercitiva, ma l’abilità di servirsene da parte dei singoli non è condizione sufficiente perché la popolazione possa interagire efficacemente con il sistema ed esercitare forme di resistenza (più o meno legittime, da istanze conformi alla legge a tentativi di contraffazione). Particolarmente interessante è il “feticismo” riservato a documenti e attestati anzitutto educativi, come se in essi si celasse un potere di riscatto sociale raramente garantito (p.186). Ancora più allarmante è la pedante compilazione di report e censimenti, spesso basati su dati inattendibili riportati dagli ispettori, che generano un’ulteriore stereotipizzazione della popolazione e una fallita comprensione dei bisogni reali di chi vive nell’indigenza.

Con razionalità amministrativa o governa-mentalità, l’autore esamina due progetti locali di sviluppo rurale attuati in U.P., rivolti rispettivamente alla cura dell’infanzia (Integrated Child Development Services) e a un presunto empowerment femminile (Mahila Samakhya). Se l’implementazione dei programmi copre tempi storici contigui ma divisi dall’apertura dell’India all’economia di mercato nei primi anni ‘90, Gupta traccia più convergenze che differenze tra i due modelli di sviluppo, comunque mossi da “idee, tecnologie e mezzi transnazionali” (p.239). In entrambi i casi molte risorse sembrano andare sprecate, quando non intascate da funzionari che pure si dicono impegnati nell’alleviare la miseria dei concittadini. La mancanza di esiti sociali a lungo termine è imputata alla stessa messa in atto dei progetti, dove beneficiari e attori finiscono con il coincidere: nella gestione dell’anganwadi (centro-rifugio) sono le donne target delle attività a fungere da volontarie senza equa retribuzione. A prescindere dalla cornice ideologica, l’arbitrarietà dei microprocessi burocratici ostacola reali mutamenti sociali, sotto il velo illusorio di magnanimi interventi pubblici.

L’amara chiosa dell’autore rilancia infine un ulteriore paradosso: benché la normalizzazione della miseria sia denunciata come omicidio colposo di massa, nessuno è perseguibile, al contrario “nell’India post-Indipendenza lo Stato continua a fondare la sua legittimità sull’impegno a garantire la crescita degli ultimi [marginali, subalterni, outcast], puntualmente senza riuscire a mantenere quanto promesso” (p.292).

Empiricamente solido, politicamente urgente e teoricamente raffinato, le criticità del testo si possono rilevare nella ridondanza delle tesi centrali che in parte sacrificano coesione e concisione, e nell’insufficiente disaggregazione della categoria di poveri, da cui restano escluse le fasce marginali urbane che avrebbero reso più pregnante la critica sociale, rivelando contraddizioni di genere e casta/classe qui scarsamente considerate. Una certa reificazione della povertà si accompagna però al riconoscimento della sua immagine mutevole e storicamente determinata; cenni alla Mandal Commission (1989) e all’introduzione del “sistema quote” lasciano intravedere la consapevolezza di altre questioni socio-politiche volutamente lasciate sullo sfondo. Qualche perplessità pone invece la trattazione, sollevata in epilogo, del discorso su violenza armata e scontro tra Stato, maoisti e gruppi tribali, con un salto temporale non del tutto ragionato.

Per quanto manchi di comparazioni areali (l’esperienza in U.P. non può essere estesa all’intera Federazione) e di un aggiornamento storico più puntuale (tra campo e scrittura sono trascorsi quasi due decenni), il testo rimane una delle più ricche e convincenti indagini antropologiche sulla violenza strutturale perpetrata dallo Stato postcoloniale indiano a danno degli strati vulnerabili della nazione. Fonte di inesauribili dibattiti, il lavoro sarà di sicuro interesse per etnologi politici e asiatisti, ma anche per esperti di relazioni internazionali, cooperazione e sviluppo, che troveranno in queste pagine analisi bottom-up tali da incrinare idee consolidate su povertà, progresso e apparato statale nella più contestata e potente democrazia sud-asiatica.

Rimane da chiedersi se le intuizioni di Gupta possano sollecitare una revisione della macchina burocratica indiana e un ripensamento epistemico “dell’ordinaria sofferenza umana” (p.138) in un Paese abitato da oltre 1.2 miliardi di persone, dove i significati di sviluppo, globale e postmoderno sono mediati dall’eredità storica del Raj britannico. Pur con qualche scetticismo, resta da vedere se l’attenzione manifestata dal nuovo Primo Ministro Modi verso il Civil Service saprà intaccare la “maligna negligenza” (p.137) con cui la classe dirigente ostenta benevolo interesse per un’umanità di miserabili, traghettando lo stato sociale verso il neoliberismo nella prima era post-Congresso.

 

Giorgio Borsa

The Founder of Asia Maior

Università di Pavia

The "Cesare Bonacossa" Centre for the Study of Extra-European Peoples

THE RISE OF ASIA 2021 – CALL FOR PAPERS