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La Malaysia fra crisi economica globale e transizione politica interna

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1. Introduzione

Il 2010 è stato un anno di passaggio, economico e politico, per una Malaysia che ha dovuto affrontare la grande crisi economica globale. È un paese emergente che può legittimamente aspirare a diventare una nazione progredita. Ma per riuscirvi, Kuala Lumpur deve avviare ed applicare significative riforme economiche e sociali, deve, cioè, da un lato aprire la sua economia alle forze della competizione e, dall’altro, dare un assetto più egualitario al proprio sistema di sicurezza sociale e a quello dell’istruzione. La Malaysia è un paese con una economia fortemente interdipendente con quella mondiale, che, per andare avanti, deve essere fortemente competitiva. Qui sono arrivati i problemi, politici e sociali. La federazione malese, infatti, è stata governata per circa 50 anni, ovvero fin dal conseguimento dell’indipendenza, dall’UMNO (United Malay National Organization), il partito rappresentativo della comunità malay, l’etnia maggioriaria, con una formula politica che si basa su due principi non pienamente omogenei: il primo vede la presenza, a fianco dell’UMNO, dei partiti etnici delle altre comunità; il secondo contempla una politica economica che vede il suo pilastro nell’«azione affermativa» a vantaggio dei malay.

A partire dal 1973, l’UMNO è diventato il partner dominante di una coalizione o «federazione» (come si definisce) di partiti: il Barisan Nasional («Fronte Nazionale» o BN). Oltre allo stesso UMNO, il BN comprende due altri membri principali: l’MCA (Malaysian Chinese Association) e il MIC (Malaysian Indian Congress). Le elezioni legislative del 2008 avevano visto un consistente arretramento dell’UMNO e dei suoi alleati, che avevano perso la maggioranza parlamentare dei due terzi, un fatto senza precedenti nella storia della Malaysia indipendente. La sconfitta elettorale dell’UMNO era dipesa in larga parte proprio dalle contraddizioni crescenti della politica economica basata sull’azione affermativa a favore dei malay. La crisi globale ha poi fatto il resto: la Malaysia si è ritrovata nel mezzo delle contraddizioni. La politica economica a favore di una parte soltanto della popolazione, infatti, dovrà essere cambiata nel senso della competizione e dell’uguaglianza, per allocare in modo efficiente le risorse e i fattori produttivi; ma quando e se ciò avverrà, la base elettorale e sociale dell’UMNO – i malay e, in particolare, la classe affaristica malese – entrerà in agitazione contro il partito dominante. Se, quindi, l’UMNO non farà le riforme metterà in pericolo lo sviluppo della Malaysia, ma se le farà rischierà di minare il suo tradizionale sistema di potere e di consenso.

In questo contesto ha preso corpo, nell’anno sotto esame, seppure con tensioni e fallimenti, la coalizione avversaria, la People’s Alliance, formata dal People’s Justice Party, dal Pan Islamic Party, e dal Democratic Action Party. La Malaysia fin qui dominata da un partito egemone, l’UMNO, si appresta a diventare un sistema politico ‘bi-polare’ di stampo comunque competitivo?

2. La Malaysia nella crisi economica globale

Per capirlo dobbiamo partire dall’economia. La Malaysia, infatti, è conosciuta nella comunità internazionale come un «tigrotto» del Sud-est asiatico, una delle economie emergenti della regione, con una popolazione di oltre 28 milioni di abitanti e un PIL (Prodotto interno lordo) nominale stimato per il 2010 del valore di 403 miliardi di dollari. È un paese che in meno di dieci anni, se le sue classi dirigenti avranno il coraggio di fare le riforme necessarie, potrà diventare a tutti gli effetti una nazione altamente progredita. Nel 2009 e nel 2010, però, anche la Malaysia ha dovuto affrontare le conseguenze della grande crisi economica scatenata dal crollo dei mercati finanziari americani, ma, in realtà figlia, del paradigma neoliberista dominante in Occidente e nell’economia mondiale dal tempo della rivoluzione reaganiana e thatcheriana [IDE-JETRO 2010].

La Malaysia non poteva non subire gli effetti della crisi globale, soprattutto a causa della struttura della propria economia: il volume congiunto delle esportazioni e delle importazioni di beni e di servizi, infatti, è equivalente all’intero PIL annuo. Così interconnessa con l’economia mondiale, la crisi dei mercati di sbocco dei paesi avanzati ha provocato in Malaysia una contrazione del PIL del 6,2% nel primo quadrimestre del 2009. Una contrazione molto significativa che ha duramente colpito i settori trainanti della Malaysia, i settori elettronico ed elettrico: un dato, l’intero settore manifatturiero ha avuto una diminuzione del 9,3%. Nel 2009 complessivamente il PIL ha subito una flessione dell’1,7%, ma già nell’ultimo quadrimestre del 2009, le statistiche segnalavano un nuovo incremento del reddito annuale dei malesi. La capacità di reazione dell’economia malese è stata, quindi, complessivamente buona. Ma sono tante le contraddizioni sociali e i problemi politici, derivanti da quella «trappola dei paesi a reddito intermedio», in cui si trova l’economia malese. Si tratta, cioè della situazione propria di quelle economie che, da un lato, non possono ormai più godere dei vantaggi competitivi dei paesi a basso reddito, ad esempio i bassissimi salari, ma, dall’altro lato, non sono ancora paesi avanzati con una solida base produttiva.

Anche il mercato del lavoro ha dovuto pagare il suo prezzo alla crisi: il tasso di disoccupazione era arrivato nel primo quadrimestre del 2009 a quota 4% per poi ridursi al 3,5%. Infine il surplus commerciale: come abbiamo visto, l’interconnessione dell’economia malese con l’economia globale rappresentava e rappresenta il dato strutturale più importante del paese; il surplus commerciale, quindi, è un numero importante per capire la reale situazione economica malese. Il surplus commerciale è passato dai circa 38,9 miliardi di dollari del 2008 ai 32 miliardi di dollari del 2009. Le riserve monetarie di Kuala Lumpur invece sono arrivate a oltre 96 miliardi di dollari, circa quattro volte il debito esterno a breve termine.

Il governo ha varato in sequenza due manovre economiche di sostegno: la prima pari al 9% del PIL, la seconda pari a circa il 3%. Le manovre di sostegno – che hanno compreso misure di spesa, garanzie per i crediti, investimenti pubblici o in partneriato con imprese private, e infine incentivi fiscali – hanno avuto effetto positivo sulla ripresa: per il 2011 le previsioni dell’Asian Development Bank danno un incremento del PIL dell’ordine del 5%.

La ripresa economica malese ovviamente è in buona parte figlia anche della forza della vicina e potente economia cinese. «Nel 2010 la ripresa sarà trainata dalle esportazioni guidate da una forte domanda», per dirla con le parole dell’Asian Development Bank. Una ripresa che sarà ulteriormente favorita dall’area di libero commercio Cina-ASEAN, il CAFTA, entrato in vigore il 1° gennaio 2010.

Ma la risposta chiave alla crisi del paese è stata nel 2009, con l’insediamento al vertice del partito dominante, l’UMNO, e del governo federale di un esponente storico dell’élite nazionale del paese, Rajib Tun Razak. Rajib è l’erede di uno dei padri fondatori della federazione, quel Tun Abdul Razak che pose le basi per il sistema economico e politico malese alla fine degli anni Sessanta con la NEP, New Economic Policy. Proprio per affrontare le contraddizioni della società malese, figlie della NEP, il primo ministro Rajib ha annunciato nel 2010 il lancio del «Nuovo Modello Economico». Obbiettivo: la piena ripresa della crescita economica, tale da determinare il passaggio della Malaysia nel campo dei paesi progrediti. Giova ricordare che il pilastro della NEP è stato, in questi lunghi anni, il sostegno statale alle iniziative imprenditoriali ed economiche dei bumiputra, (cioè i malay, l’etnia maggioritaria di religione musulmana, di cui l’UMNO è l’espressione politica). Questa «azione affermativa» a favore della maggioranza malay era stata decisa dal governo di Kuala Lumpur alla fine degli anni Sessanta dello scorso secolo, per evitare il totale controllo dell’economia nazionale da parte della laboriosissima borghesia cinese. Questa politica ha avuto, in passato, un innegabile successo, avendo favorito le imprese economiche non cinesi nel paese, e avendo garantito un ampio sostegno politico e sociale all’UMNO e al suo Barisan Nasional. Oggi, però, è giunta al capolinea: il complesso sistema di licenze e di controlli statali per favorire i malay ha creato ostacoli e problemi enormi agli investimenti internazionali e ha di fatto impedito in numerosi campi lo sviluppo di un mercato effettivamente competitivo. Come se non bastasse, l’equilibrio fra le comunità e le etnie del paese è in crisi: i malay poveri ormai non hanno più alcun vantaggio dalla NEP, mentre la comunità indiana si sente sempre di più emarginata dai meccanismi dell’azione affermativa pro malay; solamente la ricca classe imprenditoriale ed affaristica malay, strettamente legata all’UMNO, continua ad avere tutti i vantaggi della NEP. Morale: indiani emarginati, malay insoddisfatti e cinesi sempre laboriosi si sono ritrovati nella coalizione delle opposizioni, la People Alliance. Questa è guidata da un ex beniamino dell’UMNO stessa, passato alla più dura contestazione del partito dominante, l’ex ministro delle finanze Anwar Ibrahim.

Queste contraddizioni erano già presenti negli anni scorsi, prima del crollo del mercato dei subprime, ma la crisi economica globale le ha fatte precipitare. Come abbiamo detto, nel 2010 il primo ministro Najib ha proposto il suo «Nuovo Modello Economico» per affrontare questi problemi in modo congeniale al regime dell’UMNO; dal canto suo la coalizione delle opposizioni, guidata da Anwar Ibrahim ha presentato la sua «Nuova Agenda Economica».

La Malaysia per superare la trappola dei paesi a reddito intermedio e per affrontare la sfida della crisi globale deve raddoppiare il reddito pro capite entro il 2020. È un obbiettivo che richiede, per dirla con lo stesso premier, uno «sforzo erculeo», ma è un obbiettivo indispensabile se i malesi intendono proseguire nel sentiero della crescita di questi decenni. I numeri come sempre sono chiari nella loro semplicità: negli anni Sessanta, l’incremento del PIL è stato mediamente del 6,7%, negli anni settanta del 7,7%, negli anni ottanta del 5,9%, negli anni novanta del 7,3%, nel periodo 2000-2006 del 5,2%, il più basso, ed ora, per il periodo 2011-2020, le stime prevedono un incremento del 4,6%. L’incremento necessario per portare il paese al pieno sviluppo, secondo gli economisti, dovrebbe essere del 6% [W/ADB].

Il governo di Rajib ha iniziato a varare qualche riforma in senso liberistico, come l’apertura di 27 settori economici alla libera con- correnza; ma, evidentemente, siamo solo all’inizio della nuova avventura della Malaysia moderna. Morale: la Malaysia è nel mezzo della crisi economica globale e, allo stesso tempo, di un complesso processo di transizione determinato da cause interne.

3. Le tensioni ‘religiose’ e le manovre politiche

Nel 2009, un giornale cattolico malese, «The Catholic Herald»,per definire il Dio della Bibbia, aveva usato il termine Allah, cioè un termine arabo che letteralmente significa «Iddio» (dato che è formato dalla fusione dei termini al «il» e ilah «Dio»). Ora, nonostante che il Dio della Bibbia e il Dio del Corano siano assolutamente ed esplicitamente gli stessi (Muhammad, secondo la rivelazione coranica non è che l’ultimo esponente della tradizione profetica iniziata con Adamo – considerato dall’islàm un profeta – e Abramo), alcuni gruppi militanti di integralisti islamici hanno attaccato il giornale cattolico. Secondo loro, infatti, per qualche strana ragione, il termine «Allah» può essere usato solo dai musulmani. Di fronte alle dimostrazioni ed alle minacce degli integralisti islamici, il governo del Barisan Nasional, dimostrando una penosa debolezza e una deprecabile mancanza di spirito laico, ha deciso la sospensione delle pubblicazioni del giornale nella sua edizione malay. Alla fine, in seguito ad una formale accusa fatta al giornale cattolico di aver usato arbitrariamente il nome di Allah nella sua edizione malay, della questione veniva investita la magistratura malese. Il 31 dicembre del 2009, l’Alta Corte di Kuala Lumpur, una delle massime istanze giudiziarie della federazione, aveva stabilito che l’uso del termine «Allah» da parte del giornale cattolico era conforme alla Costituzione e alla legge della federazione.

I gruppi militanti integralisti, ovviamente non particolarmente soddisfatti della sentenza dell’Alta Corte, si sono resi protagonisti per tutto il mese di gennaio di attacchi e di atti di vandalismo contro istituzioni religiose cristiane o non musulmane, in particolare contro gli edifici religiosi cristiani. Almeno 11 chiese cristiane, cattoliche o protestanti, oltre a un tempio sikh, sono state fatte oggetto di lanci di bombe «molotov» e di altri attacchi. Il 27 gennaio, poi, i resti di un maiale sono stati fatti ritrovare vicino ad una moschea nella capitale Kuala Lumpur, segno evidente che la tensioni rischiavano di tracimare. Ma che cosa stava accadendo nella tollerante Malaysia?

La Malaysia è conosciuta come un paese musulmano tollerante e pluralista, caratterizzato dalla presenza di una concezione dell’islàm, quella malese-indonesiana, che è particolarmente aperta alle relazioni e ai contatti con altre culture e con altre religioni. La storia non violenta dell’islamizzazione di Malesia e Indonesia, avvenuta ad opera di mercanti musulmani e di mistici sufi, è alla base del mondo musulmano del Sud-est asiatico. Si tratta di un mondo musulmano che, proprio per le sue caratteristiche storiche, culturali e politiche, viene spesso considerato come una grande risorsa a livello anche internazionale, su cui fondare relazioni pacifiche fra fedi e civiltà.

E allora, che cosa stava accadendo nella Malaysia multireligiosa e multirazziale, un paese in cui il 53% della popolazione appartiene alla comunità malay di religione musulmana, il 26% alla comunità cinese, prevalentemente buddista, l’8% alla comunità indiana, prevalentemente induista, e il 12% ai popoli indigeni, animisti o cristiani? La risposta, probabilmente, è da collegarsi alle trasformazioni del paese, ai problemi sociali ed economici, alla crisi politica dell’egemonia del partito dominante, l’UMNO.

L’UMNO era ed è tuttora il partito rappresentativo dell’etnia malay, che, come si è già ricordato, dai tempi dell’indipendenza, quindi da circa 50 anni, e dal 1973 attraverso il Barisan Nasional, aveva dominato la vita pubblica malese a livello statale e federale, con una comodissima maggioranza parlamentare, superiore ai due terzi dei deputati. Questa comoda posizione di dominio era stata messa in pericolo con le elezioni legislative del 2008, quando l’UMNO e il Barisan Nasional avevano perso la maggioranza parlamentare dei due terzi. Alla base di quell’insuccesso elettorale, che aveva scosso il sistema politico malese, c’erano le profonde insoddisfazioni dei malay poveri, le proteste crescenti della comunità indiana e le richieste dell’agiata borghesia cinese. Manifestazioni popolari, proteste sociali e opposizione politica avevano iniziato a mettere in discussione le politiche governative a favore della comunità malay. Cioè, a mettere in discussione quella New Economic Policy, che favoriva da anni i malay sia nelle pubbliche amministrazioni, sia sul luogo di lavoro, sia, infine nelle attività imprenditoriali. Erano le politiche che l’UMNO aveva messo a punto ed applicato per equilibrare l’egemonia economica della ricca comunità mercantile cinese. Ora quelle politiche stavano diventando strette non solo dal punto di vista economico, come abbiamo visto precedentemente, ma anche dal punto di vista politico e sociale: gli indiani non volevano più subire una situazione che vedevano come una forma d’emarginazione, mentre molti malay poveri vedevano che solamente una parte della loro comunità traeva beneficio da quelle politiche. Ciò aveva provocato contestazioni ed aveva prodotto il risultato elettorale del 2008. Quel risultato e quelle contestazioni, a loro volta, avevano provocato una nuova mobilitazione di parte della comunità malay.

Subito dopo le elezioni del 2008, Ibrahim Ali’, un membro indipendente del parlamento malese, aveva dato vita ad un nuovo movimento, il Pertubuhan Pribuni Perkasa Malaysia, in sintesi Perkasa. Tale movimento si fonda sulla «supremazia malese», che vuole difendere i «diritti» dei bumiputra contro i non malay, ritenuti «immigrati» in Malaysia. Proprio il risultato delle elezioni del 2008 veniva visto come una sfida intollerabile dei non malay alla supremazia dei malay. Perkasa è stato definito un «gruppo militante», alla stregua dei peggiori integralisti islamici, dall’ambasciatore degli Stati Uniti a Kuala Lumpur, John Malott.

Proprio nel gennaio del 2010 – in coincidenza, cioè, con i disordini anti cristiani – Perkasa aveva organizzato una manifestazione popolare contro il chief minister dello stato di Penang, uno dei più avanzati della federazione. Il chief minister di Penang (chief minister sono nella federazione malese, i capi dei governi degli stati della federazione), Lim Guan Eng, è il leader del Democratic Action Party, di ispirazione laica e progressista, parte fondativa della coalizione delle opposizioni, la People’s Alliance, nonché esponente di spicco della borghesia cinese. Insomma è il tipico «nemico» per i «militanti» della supremazia malay.

Ad essere preoccupante non è stata solo la manifestazione popolare in sé, quanto il fatto che tale azione ha avuto l’appoggio di personalità importanti della comunità malay, quali il sultano di Selangor, uno dei capi di stato della federazione malese, e l’ex primo ministro Mahathir Mohamed. Si è trattato di appoggi che hanno confermato il ruolo politico crescente di questa realtà «militante».

È quindi chiaro come le bombe «molotov» contro istituzioni religiose non musulmane siano arrivate in un clima politico dove la reazione di almeno una parte della comunità malay alle richieste delle altre comunità di un «new deal» politico ed economico si presta all’utilizzo di parole d’ordine religiose islamiche. È vero che il primo ministro Rajib ha immediatamente respinto questi estremismi e ha lanciato lo slogan di «Una Malaysia» per sottolineare fortemente il carattere multireligioso, multirazziale e multietnico della società malese; ma è anche evidente che non tutto era tranquillo nel paese, in particolare ai vertici del potere. Le riforme economiche di Najib, la forza politica delle opposizioni parlamentari, l’attivismo della società civile, ben rappresentata dal crescente peso dei blogger indipendenti, erano tutti potenti fattori di preoccupazione crescente per vasti settori della comunità malay, compresi, probabilmente, settori potenti del regime al potere da 50 anni.

D’altra parte la società malese era ed è storicamente aperta alla tolleranza religiosa. E, infatti, la reazione più degna di nota alle bombe «molotov» contro le chiese è arrivata proprio dal mondo musulmano locale: il partito islamista malese, il PAS, Pan-Islamic Party, ha immediatamente riconosciuto il pieno diritto dei giornali cristiani di usare il nome di «Allah» per indicare il Dio di Abramo. «Le tre religioni di Abramo hanno lo stesso Dio», hanno correttamente annunciato gli esponenti del movimento islamista, che a quel punto appariva più tollerante ed aperto al pluralismo religioso e culturale di certi settori dell’UMNO.

La presa di posizione del PAS ha rappresentato uno sviluppo preoccupante per il partito di governo, che, con il suo atteggiamento complice nei confronti dei militanti islamisti rischiava in un sol colpo non solo di perdere consensi nelle comunità non malay, rappresentative di quasi metà della popolazione, ma anche di non trovare sostegni neppure nei malay moderati. Questo non è tutto: l’UNMO doveva anche considerare a quel punto un ulteriore problema politico. Nella difficile situazione parlamentare determinata dalle elezioni del 2008, i partiti chiave per la maggioranza del governo Rajib, erano i partiti rappresentativi dei due stati del Borneo malese, il Sarawak e il Sabah. Senza il sostegno dei parlamentari provenienti dal Borneo malese, l’UMNO e il Barisan Nasional avrebbero perso non solo la maggioranza qualificata dei due terzi, ma anche quella semplice e avrebbero dovuto andare all’opposizione. Nei due stati del Borneo malese, la popolazione è in maggioranza non malay e cristiana; non poteva, quindi, non gradire le bombe «molotov» contro le chiese. Sarà un caso, ma dal febbraio 2010 in Malesia non si sono più registrati attacchi ad istituzioni religiose non musulmane; le critiche e le contestazioni dei «militanti» per la supremazia malay si sono invece concentrate contro le riforme economiche di Naijb.

4. L’UMNO in ripresa tra processo Anwar ed elezione a Selangor

Era il 1998; Anwar Ibrahim, ex «delfino» dell’allora primo ministro e uomo forte della Malaysia, Mahathir Mohamed, da qualche tempo strenuo oppositore del suo vecchio mentore, dopo essere stato defenestrato dal doppio incarico di vice premier e ministro delle Finanze, si era trovato accusato di attività omosessuali, di ‘sodomia’ per la precisione, dalla magistratura di Kuala Lumpur, per avere avuto rapporti sessuali con almeno tre persone di sesso maschile. Queste accuse di rapporti omosessuali, nonché ovviamente l’inimicizia dei vertici dell’UMNO, avevano allora stroncato la carriera politica di Anwar, condannato a sei lunghi anni di carcere.

Dal carcere, però, Anwar non aveva abbandonato la lotta politica e, con l’aiuto della moglie, aveva fondato il PKR (People’s Justice Party, o KeaADIlan). Con questa nuova formazione politica, l’ex vice premier aveva iniziato la sua battaglia di opposizione. Con l’arrivo al potere di Abdullah Ahman Badawi, il successore di Mahathir, Anwar era stato liberato, con l’interdizione però di entrare in parlamento fino al 2008. Poco prima della fine del periodo d’interdizione, il partito di Anwar e la coalizione multipartitica che guidava avevano ottenuto nelle elezioni federali e statali di quell’anno un importantissimo successo elettorale, abbattendo la storica maggioranza parlamentare dei due terzi del Barisan Nasional.

Quell’evento aveva avviato il mutamento del sistema politico malese, fino ad allora dominato dall’UMNO. Tutto superato quindi? Tutto riportato nella dimensioni della normale lotta politica? Ovviamente no: anche la politica malese ha i suoi punti oscuri. La dimostrazione di ciò è stato che, nel febbraio del 2010, un secondo processo contro Anwar ha avuto inizio presso il tribunale di Kuala Lumpur. L’accusa era sempre la stessa: quella di «sodomia». Anwar avrebbe avuto rapporti omosessuali con una persona del suo stesso sesso. Ricominciava la storia: ricominciavano le accuse della magistratura contro il leader dell’opposizione, che ora non è un semplice delfino caduto in disgrazia, ma il massimo esponente di una coalizione che è molto ben fortemente presente nel parlamento federale; ricominciavano ovviamente le controaccuse di Anwar e dell’opposizione contro una magistratura che appare spesso troppo legata al potere governativo del partito dominante; ricominciavano le accuse di cospirazione contro il dissenso da parte delle autorità governative di Kuala Lumpur. Insomma, ricominciava una vecchia storia che narra la lotta politica malese dagli anni Novanta in poi.

All’inizio del processo, il giudice immediatamente respingeva alcune richieste della difesa del leader dell’opposizione, rinfocolando in tal modo recriminazioni e sospetti di cospirazione governativa. Al di là dei fatti specifici del processo contro Anwar, gli osservatori un po’ più disincantati hanno subito annotato due fatti abbastanza semplici. Il primo riguardava il «sistema» del partito dominante. Cambiano gli uomini al vertice del partito e del governo, cambiano le impostazioni di politica economica, cambiano i tempi, ma alcune modalità di esercizio del potere rimangono perfettamente simili a se stesse; in particolare, i vertici e gli apparati del partito dominante non disdegnano alcuno strumento per mantenere quel potere che hanno conquistato con l’indipendenza dall’impero britannico. Le accuse di sodomia per infangare l’ex vice primo ministro, dunque, sono sempre uno strumento «buono» per il potere. Il secondo fatto notato dai commentatori riguarda invece l’opposizione, e il suo stato di salute.

Dopo il rilevante successo elettorale del 2008, infatti, la coalizione delle opposizioni, riunite nella People’s Alliance, non era riuscita a erodere ulteriormente la maggioranza, non fortissima, dell’UMNO e del suo schieramento. Anwar non era riuscito nel 2008 e neppure nel 2009 a mettere in minoranza il governo prima Badawi e poi Rajib, nonostante le sue intenzioni in tal senso, pubblicamente reiterate. Non solo: sia pure tra contraddizioni ed esplosioni di sciovinismo malay, l’UMNO aveva manifestato significative capacità di risposta alla crisi politica: lo stesso avvento al potere del nuovo primo ministro era un segnale in questa direzione. Poche settimane dopo l’avvio del secondo processo Anwar, un’elezione suppletiva in uno stato chiave della federazione, il Selangor, uno degli stati conquistati dai partiti di opposizione nelle storiche consultazioni del 2008, confermava i problemi della People’s Alliance e metteva in luce come le opposizioni vivessero un momento particolarmente delicato.

A fine aprile 2010, a Hulu Selangor, distretto elettorale dello stato del Selangor, alla periferia della capitale Kuala Lumpur, era tempo di elezioni, per il rinnovo del locale seggio del parlamento federale. Il deputato in carica, un esponente del partito di Anwar che aveva conquistato quel seggio nel 2008 con appena 198 suffragi di maggioranza, era morto, rendendo necessaria una nuova consultazione. Quel distretto di Hulu Selangor era storicamente una roccaforte del Barisan Nasional, ciò che aveva reso la sconfitta del 2008 particolarmente bruciante per la coalizione al potere. Non solo: quel distretto era una roccaforte in particolare di un partito alleato dell’UMNO, il MIC (Malaysian Indian Congress), la formazione politica che, nel Barisan Nasional, la coalizione dominata dall’UMNO, rappresentava e rappresenta la comunità indiana. La sconfitta del 2008 era stata determinata in buona parte dal dissolvimento elettorale e sociale dei partiti del Barisan Nasional rappresentativi delle etnie cinese e indiana, cioè dei partiti che garantivano all’UMNO la «pace comunitaria» nel regime dell’azione affermativa pro malay. Dunque la sconfitta a Hulu Selangor era bruciante e politicamente molto significativa. La battaglia di aprile aveva quindi tutte le caratteristiche di un referendum politico decisivo per il primo ministro Rajib, che doveva dimostrare di avere capacità di ripresa politica. La situazione economica, caratterizzata da un’evoluzione abbastanza favorevole in termini congiunturali, ovviamente favoriva il premier. Alla fin fine, come annotavano gli osservatori, il tema decisivo nelle campagne elettorali, anche in Malaysia, era proprio quello economico; e, in quell’ambito, l’UMNO stava riconquistando fiducia, nonostante tutto. Il valore simbolico dell’elezione suppletiva di Hulu Selangor è poi stato moltiplicato dalla personalità del candidato presentato dalla People’s Alliance per la riconquista del seggio: si trattava dell’ex ministro della Giustizia federale del governo Badawi, Zaid Ibrahim. Zaid era una personalità molto rispettata, che molti ritenevano un possibile successore dello stesso Anwar alla leadership dell’opposizione, in caso di ritiro dell’ex vice primo ministro a causa dello scandalo sessuale. Insomma la corsa al seggio di Hulu Selangor era diventata, a tutti gli effetti, una competizione chiave per la politica malese.

In una tale situazione, il primo ministro ha deciso di giocare le sue carte in modo deciso, imponendo al partito alleato, il Malaysian Indian Congress, un candidato nuovo, diverso da quello che lo stesso partito aveva autonomamente indicato. Il candidato imposto da Rajib, P. Kalamanthan, era un esponente politico della comunità indiana che poteva presentarsi senza le caratteristiche del vecchio apparato di potere del MIC, immagine questa ritenuta molto perniciosa dagli strateghi politici del primo ministro. La scelta ovviamente ha provocato non pochi risentimenti nel partito alleato, ritrovatosi a che fare con un’intrusione senza precedenti nella sua vita interna; ma, alla fine, la scelta del primo ministro si è rivelata vincente. Kalamanthan ha vinto lo scontro diretto con Zaid; l’ha vinto con un margine ristretto, 1.725 suffragi in un distretto nel quale la coalizione al potere normalmente aveva un margine positivo di 10.000 suffragi, ma aveva comunque vinto. Aveva conquistato un nuovo seggio per la delicata maggioranza di governo al parlamento federale di Kuala Lumpur; aveva mostrato le indubbie capacità di ripresa del primo ministro; aveva sconfitto il possibile erede politico di Anwar: una tripletta piuttosto importante per l’UMNO e per Rajib.

5. La biografia contestata

Il 2010 è stato un anno difficile per tutta la politica malese, in particolare per l’UMNO, che doveva ricostruire il proprio modello politico, e per il primo ministro in carica, quel Rajib, figlio d’arte, che doveva dimostrare di essere capace di riformare la Malesia e il «sistema UMNO», senza però far perdere definitivamente il potere al partito dominante, un’impresa non facilissima. E, nel farlo, Rajib ha continuamente dovuto fare i conti con un’ombra politica pesantissima, quella dell’ex primo ministro, il controverso ma politicamente ancora influentissimo Mahathir Mohamed, il «dottore» come viene chiamato, con riferimento a quella che era la sua professione prima di entrare in politica.

Mahathir è stato primo ministro della federazione per 22 anni, dal 16 luglio del 1981 al 31 ottobre del 2003. In questa veste, ha guidato la Malesia attraverso la sua trasformazione in paese quasi avanzato e lo ha diretto con successo al di fuori della procella socio-economica rappresentata dalla grande crisi asiatica del 1997-1998, rifiutando le ricette dell’FMI (Fondo monetario internazionale). È per definizione un uomo molto controverso. Come dimostra ampiamente una biografia scritta da Barry Wain, uscita nel 2009 e intitolata Malaysian Maverick, Mahathir Mohamad in turbolent times [Wain 2009]. Mahathir, scrive l’autore, ha guidato la Malaysia, un paese a maggioranza musulmana dell’Asia Sud-orientale, a diventare uno dei casi di pieno successo economico del mondo emergente. Durante i suoi 22 anni di potere, prosegue, ha adottato politiche economi- che pragmatiche assieme a misure politiche repressive, e ha mostrato che l’islàm è compatibile con le istituzioni rappresentative e con la modernizzazione. Mahathir è quindi stato un campione dei malay e, allo stesso tempo, un feroce critico dei malay nonché stretto amico della comunità imprenditoriale cinese della Malaysia, un durissimo contestatore del dominio economico occidentale e un corteggiatore assiduo dei capitalisti americani ed europei, un seguace dei «valori asiatici» essendo lui stesso un fierissimo competitore politico. Un uomo dalle mille sfaccettature, si potrebbe dire. «Una serie di persone», scrisse di lui un giornalista autore di un’altra biografia dell’ex primo ministro. Un uomo di governo alquanto complesso, dunque, che è diventato un’ombra per il primo ministro in carica nel 2010. Come dimostra la vicenda della sua biografia.

Mahathir alla fine del 2009 aveva denunciato Malaysian Maverick come diffamatorio; per quattro mesi le autorità di Kuala Lumpur avevano tenuto a «bagno maria» le autorizzazioni per la diffusione della biografia in Malaysia e, solo alla fine di aprile, la situazione si era finalmente sbloccata, con una lettera del ministro dell’Interno al distributore del libro nel paese, che «era stata una chiara approvazione» alla sua diffusione. Quattro mesi di calvario dunque per una biografia ricca di spunti sulla figura dell’ex primo ministro. La cui eredità politica rappresenta comunque un dato importantissimo della Malaysia. In politica internazionale, critico delle posizioni occidentali ma pronto a siglare un accordo militare con gli Stati Uniti, attento difensore dei ‘valori asiatici’, e promotore di quelle istituzioni regionali, ASEAN per prima, che hanno come obbiettivo del 21° secolo quello di «canalizzare» la crescente influenza della Cina in politica economica. Pragmatico e critico delle ricette dell’FMI durante la crisi asiatica del 1997-98, per tanti versi precursore della nuova globalizzazione «made in Asia», aperto alle innovazioni ma legato al un sistema capitalistico fortemente nepotistico, crony capitalism, il «capitalismo degli amiconi», come si ama definirlo nel Sud-est asiatico. Ma il dato che, secondo la biografia di Wain, rendeva fortemente controverso Mahathir era la politica repressiva da lui attuata, come mostra proprio l’accanimento contro il suo vecchio «delfino», Anwar Ibrahim, un accanimento che non si è ancora spento.

6. L’UMNO alle prese con il Rajah bianco di Sarawak

16 maggio, nuove elezioni suppletive. Stavolta nel Sarawak, lo stato delle avventure di Emilio Salgari e delle tigri di Mompracem, lo stato più grande della federazione con circa due milioni e mezzo di abitanti. Ricco di gas naturale, petrolio, legname, il Sarawak è uno stato governato, anzi dominato da 30 anni precisi, da un chief minister-padre padrone, Abdul Taib Mahmud, leader di un partito locale, membro del Barisan Nasional, che, dopo le ultime elezioni federali, è diventato una componente chiave e fondamentale per la sopravvivenza stessa della maggioranza della coalizione guidata dall’UMNO. Sibu era il distretto elettorale interessato alla consultazione, due erano i candidati che si sono confrontati, uno espressione di una formazione locale parte della coalizione di governo, il secondo esponente del DAP (Democratic Action Party), partito legato all’etnia cinese. Il confronto elettorale è stato duro; per appoggiare il candidato governativo era arrivato a Sibu lo stesso primo ministro, con un bel pacchetto di promesse e di investimenti. Sibu è un territorio con infrastrutture povere, servizi sociali mancanti e ricorrenti inondazioni. La popolazione locale era inferocita per queste sue condizioni, anche perché il chief minister del Sarawak era invece sempre di più al centro di vicende scandalistiche particolarmente consistenti.

La condizione sociale della popolazione era diventato un fattore politico ancora più rilevante alla luce anche delle storie personali dei due candidati: molto legato al mondo imprenditoriale degli affari locali, il candidato governativo; di estrazione sociale povera e membro della comunità cinese, il candidato dell’opposizione. Il confronto è stato dunque duro e il risultato finale ha poi confermato questa durezza: il candidato del DAP ha prevalso per soli 397 suffragi in un distretto fino ad allora sotto lo stretto controllo del Barisan Nasional. È quindi facile comprendere l’effetto del voto di Sibu, un effetto moltiplicato dal particolare ruolo che ormai giocano gli stati del Borneo malese nella politica federale di Kuala Lumpur. Su 222 seggi del Parlamento federale malese, la coalizione di governo guidata dall’UMNO, il Barisan Nasional, dopo l’elezioni suppletiva di Sibu, poteva disporre di 137 seggi; le opposizioni raggruppate nella People’s Alliance avevano, invece, 77 seggi. Negli stati della Malaysia peninsulare, le due coalizioni erano praticamente alla pari; i seggi chiave per la maggioranza, quindi, erano e sono quelli dei due stati del Borneo malese, il Sarawak e il Sabah, che hanno rispettivamente 31 e 25 seggi al parlamento federale di Kuala Lumpur. Fino ad oggi, Sarawak e Sabah sono stati ‘riserve sicure’ per la coalizione guidata dall’UMNO. Fino ad oggi; ma il voto di Sibu mostra come le cose stiano cambiando anche nella patria delle tigri di Mompracem.

Le cose stanno cambiando anche a causa dei tanti scandali che avviluppano ormai il chief minister dello stato e la sua famiglia. Proprio tra giugno ed agosto, grazie ad un sito web particolarmente informato, www.sarawakreport.org, sono diventati noti nuovi affari che coinvolgevano le iniziative economiche e imprenditoriali della famiglia di Taib, il potentissimo e longevo capo ministro dello stato. È emerso, ad esempio, che la figlia e il genero sono proprietari di una società che investe in edifici e immobili dal Canada agli Stati Uniti. La società sarebbe proprietaria di importanti edifici ad Ottawa e a Seattle, sede, tra l’altro, di uffici chiave dell’FBI. Le proprietà in questione valgono, secondo queste investigazioni, almeno 100 milioni di dollari. Ma questa «Canadian Connection» del chief minister è solamente l’ultimo degli scandali e dei legami nepotistici in cui Taib si trova coinvolto. Al centro del gigantesco reticolo di affari del clan ci sarebbe una società molto potente, la CMSB (Cahya Mata Sarawak Board), controllata dalla famiglia Taib e titolare di svariati contratti con l’amministrazione statale. Questi vanno dalla manutenzione delle strade dello stato per 15 anni, alla costruzione di case, altre strade e ospedali, per giungere agli imponenti progetti idroelettrici del Sarawak, che vedono assieme la Sarawak Energy Berhand e la China Three Gorges Project Corp. Sempre parte di questo reticolo d’affari è la joint venture fra la CMSB e una sussidiaria della potentissima Rio Tinto, la Rio Tinto Alcan, per la costruzione di un impianto dell’alluminio nel Sarawak. Si tratta di una rete d’affari e d’interessi che è stata posta sotto accusa da parte delle ONG di tutto il mondo per le sue violazioni dei diritti umani e dei lavoratori e per le devastazioni ambientali perpetrate nel corso di decenni [ad es. LMN 2010]. Soprattutto si tratta di una rete d’affari che, forse, non è più gradito neppure agli elettori del Sarawak [W/S 21 giugno 2010, «A Sarawak’s Chieftain Vast Canadian Fortune»; W/S 12 luglio 2010, «Sarawak Chief Minister’s London Connection»; W/AS 10 agosto 2010, «Sarawak’s White-Haired Rajah»].

Forse il Rajah dai «capelli bianchi», erede della famosa dinastia Brooke, quella dei Rajah bianchi dell’800, potrebbe essere arrivato al capolinea della sua lunghissima vita politica. Se così fosse potrebbe tremare anche la lunga egemonia politica dell’UMNO a Kuala Lumpur. La storia dei nipoti di Sandokan si collega alla politica di uno dei paesi più interessanti dell’Asia Sud-orientale, regione centrale nella grande geopolitica del XXI secolo.

7. Il fronte del porto ed altri scandali

Il 2011 è stato un anno di scandali per la Malaysia; per tutta la federazione, non solo per lo stato del Sarawak. Anche i vertici nazionali della classe politica sono rimasti coinvolti in vicende che hanno mostrato il fortissimo intreccio politico-affaristico che si è formato ed è cresciuto negli anni del mahathirismo, per poi consolidarsi successivamente.

Cominciamo dal porto di Klang e dalla relativa zona di libero scambio. Ad agosto, l’affare che riguarda la costruzione di quella che doveva essere la rivale di Singapore nella regione ha acquistato un nuovo, cruciale elemento destinato a provare il diretto coinvolgimento dell’intero gabinetto in un aspetto importante dello scandalo. Ma andiamo per ordine. La PKFZ (Port Klang Free Zone) – che doveva essere un progetto importante nella strategia delle infrastrutture dell’allora primo ministro Mahathir Mohamed – era partita come joint venture fra la Port Klang Authority e gli investitori arabi dell’emirato di Dubai. Lo scopo doveva essere quello di attrarre investimenti internazionali e di costruire porti situati vicino alla capitale, Kuala Lumpur, per creare il competitore regionale del hub di Singapore. Aveva dunque un obbiettivo piuttosto ambizioso. Sono diversi gli aspetti «interessanti» della vicenda. In primo luogo vi è il costo del progetto: partito da un miliardo e 800 milioni di ringgit, la valuta malese, (pari a circa 516 milioni di dollari), era lievitato fino alla somma di dieci miliardi di ringgit (pari a circa 4 miliardi di dollari). Il secondo aspetto riguarda il partner arabo che, nel 2007, aveva abbandonato il progetto «per le interferenze dei politici malesi, per la presenza di figure rappresentative di interessi organizzati locali e per i comportamenti dei negoziatori». Un abbandono, scrivono i giornali malesi, «pieno di acrimonia». Il terzo aspetto, infine, concerneva le questioni più esplicitamente affaristiche.

In primo luogo c’era il terreno sul quale costruire le opere pubbliche del progetto, acquistato da una società nella quale erano direttamente presenti uomini dell’UMNO; in secondo luogo c’erano i continui conflitti d’interesse presenti nelle attività e nelle diverse branche del progetto. I responsabili della PKA (Port Klang Autority) sono esponenti del più importante alleato dell’UMNO, la Malaysian Chinese Association, la formazione rappresentativa della comunità cinese nel Barisan Nasional; un importante membro del consiglio direttivo del PKA era stato, inoltre, anche tesoriere dell’UMNO; il direttore della società che aveva venduto i terreni, infine, era allo stesso tempo tesoriere di un altro partito alleato dell’UMNO [W/W 30 maggio 2009 «Port Klang Free Trade Zone Scandal»; W/AS 27 novembre 2009, «Supporting Document 1: Port Klang» e «Supporting Document 2: Port Klang»]. Insomma l’affaire della zona di libero scambio era tutto un gigantesco conflitto d’interessi che nascondeva un fortissimo intreccio politico-affaristico. Infine c’erano le obbligazioni assunte dalla PKA e garantite dal governo federale. Cosa, questa, che è emersa nel mese di agosto, quando blog e stampa indipendente hanno pubblicato il memorandum del gabinetto nel quale si era deciso di legittimare retroattivamente la decisione del ministro dei Trasporti di dare la garanzia dello stato alle obbligazioni PKA, decisione con la quale si faceva di fatto pagare ai cittadini malesi le perdite legate al progetto [W/AS 10 dicembre 2009, «Arrests in Malaysian Port Scandal»; W/AS 24 agosto, «Malaysia’s Port Storm»; W/AS 27 novembre 2010, «Malaysia’s Growing Port Scandal »].

La questione del porto, ovviamente, ha innescato un duro scontro politico in primo luogo nella comunità cinese del paese: al centro dell’affaire c’era infatti il partito cinese del Barisan Nasional, ed è stato il Democratic Action Party, la formazione espressione della comunità cinese presente nella coalizione delle opposizioni, a guidare la mobilitazione contro l’affaire. Non solo: il governo dello stato di Selangor, in mano alla People’s Alliance, si è trovato schierato contro il governo federale dell’UMNO. E, d’altra parte, il clima politico del paese era tale da favorire sospetti e inchieste in molti settori della vita pubblica malese.

Se lo scandalo del porto investiva alcuni partiti alleati dell’UMNO ed alcuni settori del partito dominante, un altra vicenda andava a colpire direttamente il cuore del partito dominante e del governo, lo stesso primo ministro Rajib. Parliamo della questione dei sottomarini francesi acquistati dalla Malaysia con un accordo siglato dall’allora ministro della Difesa, che poi era proprio l’attuale primo ministro Rajib. L’acquisto dei sottomarini francesi sembrava infatti collegato a tangenti versate ad una società finanziaria riconducibile, anche in questo caso, all’apparato dell’UMNO. Non solo: la questione era ricollegata in qualche modo ad un’altra vicenda scandalistica, che da qualche mese scandiva la vita pubblica di Kuala Lumpur, quella dell’assassinio misterioso di un’interprete mongola, amante di un personaggio considerato molto vicino al premier e che, secondo le notizie dei blogger, era ritenuto anche il referente della società finanziaria che aveva ricevuto pagamenti relativi all’acquisto dei sottomarini. Un intrigo, dunque, degno delle migliori storie di spionaggio, che diventa ancora più coinvolgente se si pensa che l’acquisto da parte della Malaysia dei sottomarini francesi era legata alla vendita di sottomarini francesi al Pakistan [W/AS 16 aprile 2010, «Malaysia’s Submarine Scandal Surfaces in France»; W/AS 14 maggio 2010, «The French Connection»; W/AS 22 novembre 2010, «France’s Sub Scandal Resurfaces»]. Quest’ultima è una questione che ha scosso e che forse continuerà a scuotere, per i suoi supposti collegamenti con i finanziamenti delle campagne elettorali di un segmento del potere gollista francese, la stessa presidenza di Nikolas Sarkozy! Un bell’intreccio politico-affaristico con impressionanti diramazioni internazionali!

8. Ombre e luci sui diritti civili in Malaysia

«La Malaysia è una monarchia costituzionale federale, ha un sistema di governo parlamentare con un primo ministro designato attraverso periodiche elezioni multipartitiche, le ultime elezioni del 2008 si sono svolte in una maniera sostanzialmente trasparente, il governo generalmente rispetta i diritti umani dei suoi cittadini». Con queste precise parole nel 2009, il Dipartimento di stato degli Stati Uniti descriveva la situazione dei diritti civili nella democrazia malese. Il concetto chiave probabilmente sta in quell’avverbio, «generalmente». In effetti le autorità di Kuala Lumpur, «generalmente», hanno rispettato e rispettano i diritti umani dei propri cittadini, ma ci sono state sempre, e assai probabilmente continueranno ad esserci nel futuro prossimo, tensioni, contraddizioni e proteste non infrequenti, relative proprio al tema dei diritti umani in Malaysia. Aveva rilevato un rapporto delle Nazioni Unite nel mese di luglio del 2010: «In alcune interviste abbiamo ricavato che ci sono stati casi di torture nei centri di detenzione in Malaysia». Il capo del gruppo di lavoro delle Nazioni Unite riportava che, a quanto risultava, le condizioni dei carcerati erano migliori rispetto a quelle dei detenuti nelle stazioni di polizia o peggio nei centri per l’immigrazione. In Malaysia, in effetti, vigono alcune norme legislative che consentono la detenzione senza processo per alcuni casi particolari; inoltre, la condizione degli immigrati clandestini non è particolarmente tutelata. «Il governo afferma che sta emendando alcune di queste norme ma non dice come», commentano alle Nazioni Unite.

Al centro della questione diritti civili in Malaysia c’è una legislazione speciale molto controversa, l’Internal Security Act (ISA), ereditata dall’amministrazione coloniale britannica. Il governo coloniale, quando, negli anni Cinquanta, aveva affrontato la guerriglia comunista, aveva messo a punto una serie di provvedimenti, tra i quali le cosiddette ordinanze di emergenza, che diventarono poi, con l’indipendenza, l’ISA. Il primo capo di governo della Malaysia indipendente, Tunku Abdul Rahman, aveva promesso che quelle norme speciali sarebbero state usate «solamente contro i comunisti». Invece quelle norme speciali sono rimaste nel sistema giuridico malese e sono state usate contro oppositori, dissidenti, studenti, sindacalisti e attivisti politici, accademici ed esponenti di gruppi religiosi. Se si tirano le somme, in 44 anni circa 10.000 persone sono state fermate in base all’ISA. Tra gli ultimi colpiti dalle norme speciali dell’ISA ci sono stati gli attivisti dell’Hindu Rights Action Force, il movimento organizzato dalla comunità indiana per una migliore difesa dei propri diritti e interessi, nonché alcuni giornalisti e blogger indipendenti particolarmente critici verso il governo. Le vittime dell’ISA sono sottoposte a detenzione per decisione del potere esecutivo, senza processo e a tempo potenzialmente indeterminato.

Nonostante questa legislazione speciale, che si può prestare facilmente ad abusi, la società malese è riuscita ampiamente ad esprimersi, mentre le opposizioni hanno conquistato uno spazio non indifferente anche a livello di amministrazione e di parlamento. Non solo: la Malaysia, anche nel 2010, è andata avanti nel campo dei diritti civili, ad esempio, nell’ambito della magistratura. All’inizio di luglio, infatti, il primo ministro ha annunciato la nomina di due giudici donna: la trentunenne Suraya Ramli e la trentanovenne Rafidah Abdul Razak [W/ToI 8 luglio 2010, «Malaysian Islamic courts appoint first women judges»]. Qui serve una precisazione: in Malesia, a norma della Costituzione, ci sono due specifici sistemi giudiziari: il primo è quello per i cittadini non musulmani, il secondo per i musulmani. Il primo è basato sulla «common law», secondo il modello britannico, il secondo sulla sharia (che, in Malaysia, si scrive syariah). Il «sistema islamico» si occupa di questioni civili, quali matrimoni e divorzi, e dell’osservanza delle norme islamiche (ad esempio sul non consumo degli alcolici, sul rispetto del ramadan e nei casi di «apostasia»). Inoltre, in un numero limitato di stati della Malaysia peninsulare, il «sistema islamico» si applica anche a questioni penali, anche se, in ogni caso, i suoi giudici possono imporre penalità limitate (non più di sei mesi di carcere, pene corporali di scarsa entità, il pagamento di multe fino a 3.000 ringgit). Il mantenimento di un sistema giudiziario islamico ha però un alto valore simbolico; da questo punto di vista rappresenta un fatto innovativo di una certa importanza che le due neo giudici donna siano state nominate nell’ambito di questo secondo sistema. Il primo ministro aveva affermato di voler riformare il sistema legale islamico e ha sostenuto che queste designazioni di giudici donna rientrava in questo suo disegno riformatore.

9. La Malaysia difficile

A settembre il governo ha presentato un ambiziosissimo «Programma di trasformazione», (Economic Trasformation Programm, o ETP), in applicazione del New Economic Model caro al primo ministro Rajib. Un programma molto ambizioso, che, però, appena presentato è stato letteralmente investito da una tempesta di critiche. Il programma prevedeva un quasi raddoppio del PIL in dieci anni, per la precisione un incremento del 178% del reddito annuo prodotto dal paese, oltre ad un aumento molto consistente anche del prodotto procapite, dell’ordine del 102%, sempre in dieci anni. L’economia malese dovrebbe essere in grado di creare qualcosa come 3.300.000 nuovi posti di lavoro nello stesso periodo di tempo, dei quali almeno la metà in settori ed attività a medio o alto reddito. Tutto ciò dovrebbe essere ottenuto grazie ad un volume gigantesco di investimenti, per centinaia di miliardi di dollari, allocati in 133 progetti chiave, in particolare in ambiti come il gas, l’energia o i settori finanziari. Il 32% degli investimenti necessari dovrebbe arrivare dalle imprese economiche collegate al governo federale, il 60% dai capitali privati e il rimanente 8% direttamente dal settore pubblico. Fin qui i numeri del programma.

Ma si trattava di numeri realistici? Le critiche sono state durissime e di fatto hanno smontato pezzo per pezzo il piano. In primo luogo, per soddisfare le previsioni del programma è indispensabile un incremento annuo medio del PIL del 6%, circa due punti percentuali in più degli attuali incrementi del PIL malese. È una operazione complessa e non facilmente affrontabile, anche perché non si comprende molto, dalle analisi del programma, quali saranno gli andamenti prevedibili del ringgit, la moneta malese. E, senza un’analisi molto approfondita del futuro della valuta malese è difficile accettare a scatola chiusa previsioni di aumento del PIL dell’ordine del 6% su base annua. In secondo luogo, gli aumenti previsti del prodotto procapite si dovrebbero allineare con gli incrementi dei salari e quindi con decrementi degli indici di diseguaglianza sociale. In terzo luogo, tutto ciò, gli aumenti consistenti del PIL e quelli dei salari, richiedono ovviamente rilevanti innalzamenti di produttività nell’economia malese. Questi incrementi di produttività sono in primo luogo legati alla qualità della forza lavoro malese; e qui le statistiche parlano di una realtà da affrontare seriamente. Alcuni rapidi confronti aiutano a capire la situazione: il 30% dei malesi ha un’istruzione elevata, contro il 46% degli abitanti di Singapore, il 41% dei tailandesi, l’89% dei sud-coreani. Se poi confrontiamo la produttività del lavoro, anche qui si registrano problemi per la Malesia: l’aumento medio della produttività della forza lavoro in Malesia nel periodo 1998-2007 è stata del 2,9%, in Cina del 9,2%, in India del 4,4%, in Thailandia del 3,1%, in Indonesia del 3%; tutti questi paesi registrano dunque un dato superiore a quello malese. Non solo: la Malaysia ha un sistema scolastico non comparabile con quello di altri paesi della regione, Singapore in particolare, come risulta da una rapida lettura delle analisi di rating internazionali riguardanti le università asiatiche. Infine, le spese per la ricerca e l’innovazione: secondo dati risalenti al 2006, in Malaysia sono solamente lo 0,6% del PIL, contro il 3,2% della Corea del sud, il 2,3% di Singapore, il 2,2% dell’Australia e l’1,4% della Cina. Insomma anche in questo ambito la Malaysia non sembra all’avanguardia in Asia Orientale. Infine il quarto punto critico: i progetti del programma necessitano di investimenti immensi, che dovrebbero essere finanziati dalle imprese e dal capitale privato. Ma come è possibile raggiungere tali obbiettivi, o solo avvicinarcisi, quando in Malaysia, negli ultimi anni, dopo la crisi finanziaria asiatica del 1997-98, il tasso d’investimento privato rispetto al PIL annuo è appena del 10%, il dato più basso dell’Asia Orientale, e quando il paese è in fondo alla classifica, anche rispetto ad economie come le Filippine o il Vietnam, per non parlare ovviamente dell’Indonesia e di Singapore?

Insomma, le critiche e le contestazioni ai contenuti del programma del governo sono state precise e ampie. «Siamo di fronte a un programma pieno di retorica», aveva commentato un esperto. Ma, allora, che cosa ha impedito al governo e al primo ministro di fare piani più accurati e che davvero potessero dare alla Malaysia il senso della direzione di marcia nazionale verso una economia progredita solida, per sfuggire alla «trappola dei paesi a reddito intermedio»? Per capire meglio che cosa fosse accaduto nei palazzi del potere di Kuala Lumpur rispetto alla politica economica è indispensabile fare un, breve, passo indietro. Al mese di marzo e di aprile. Allora, era il 30 marzo, il premier aveva preso la parola di fronte ad una conferenza qualificata di investitori finanziari per parlare delle riforme economiche necessarie al paese. Il primo ministro aveva annunciato il New Economic Model destinato ad introdurre in Malaysia più competitività e più concorrenza. Per raggiungere tale obiettivo, e questa è la contraddizione politica con la quale deve vedersela il primo ministro, devono essere rimossi, in tutto o in parte, vincoli, sussidi, privilegi, riserve che costituiscono l’essenza dell’«azione affermativa» pro malay, alla base del sistema di potere e di consenso dell’UMNO da almeno 30 anni.

Appena il primo ministro aveva parlato in quel mese di marzo, i settori più conservatori della comunità malay, organizzati attorno al già citato movimento Perkasa, avevano preso l’iniziativa per bloccare la velleità riformatrici di Najib. Il Malay Consultative Council, su spinta di questi settori, aveva preso posizione per condizionare il sì al governo e all’UMNO all’assicurazione che i privilegi della comunità malay, previsti dalla storica New Economic Policy, fossero comunque garantiti. I leader di Perkasa (che qualche osservatore mette idealmente in rapporto ai Tea Party americani) sono riusciti a collegare l’accettazione dei diritti di cittadinanza per indiani e cinesi, cioè per le altre maggiori comunità che compongono fin dall’indipendenza il mosaico culturale e sociale della Malaysia, all’accettazione piena dei «diritti speciali» dei malay. L’ex primo ministro Mahathir ha sostenuto le posizioni dei «militanti» malay. Anche Rajib si è quindi trovato nella stessa condizione del suo predecessore, Abdullah Ahmad Badawi, che voleva attuare qualche riforma economica e politica significativa ma che, quando cercò di farlo, si ritrovò di fronte il muro del suo stesso partito, guidato, nelle sue fazioni conservatrici, proprio dal «Grande Vecchio» del potere di Kuala Lumpur, l’ex primo ministro Mahathir Mohamed. È vero che gli stessi ideologi della NEP, tra i quali c’era in primissima fila, per un certo periodo di tempo, lo stesso padre dell’attuale primo ministro, avevano previsto persino una data di scadenza per l’azione affermativa a favore dei malay; è vero che quella data in realtà è scaduta già un decennio fa, era il 1990; ma tutto ciò non basta per i contestatori delle riforme economiche. Il sistema di patronage, di clientele che il regime dell’UMNO ha creato in questi anni è diventato troppo potente, troppo forte, troppo esteso per pensare di intaccarlo con facilità. Alla fin fine questo è il nocciolo del problema malese di oggi, questo è quello che i commentatori malesi definiscono il «nuovo dilemma malay». C’è un numero che spiega meglio di tante cose la contraddizione della società e dell’economia malese dopo anni di egemonia politica dell’UMNO: la spesa del settore direttamente pubblico in Malaysia era, nel 2005, pari al 52% del PIL. E ciò mentre, come abbiamo visto, il paese spende molto poco in ricerca e innovazione e ha un sistema scolastico nettamente inferiore a quelle degli altri paesi dell’Asia emergente [PEMANDU 2011].

Riferimenti bibliografici

W/ADB «Asian Development Bank», Outlook Malaysia 2010 (http://www.adb.org/documents/books/ad o/2010/MAL.pdf).
W/AS «Asian Sentinel» (http://www.asiasentinel.com).
W/ToI «Times of India» (http://timesofindia.indiatimes.com).
W/W «Warka» (http://warkah.com/port-klang-free-trade-zonescandal).

IDE-JETRO «Institute of Developing Economies – Japan External Trade 2010 Organization»
Social movements and the crisis of neoliberalism in Malaysia and Thailand, giugno (http://www.ide.go.jp/English/Publish/Dow nload/Dp/238.html)

LMN «London Mining Network»
2010 Rio Tinto: A Shameful History Of Human And Labour Rights Abuses And Environmental Degradation Around The Globe, 20 Aprile (http://londonminingnetwork.org/2010/04/rio-tinto- a-shameful-history-of-human-and-labour-rights-abuses-and -environmental-degradation-around-the-globe/).

PEMANDU «The Performance Management & Delivery Unit» 2011 Economic Transformation Programme (http://www.pemandu.gov.my)

Wain, Barry
2009 Malaysian Maverick. Mahathir Mohamad in turbolent times, Palgrave MacMillan, New York.

Giorgio Borsa

The Founder of Asia Maior

Università di Pavia

The "Cesare Bonacossa" Centre for the Study of Extra-European Peoples

THE RISE OF ASIA 2021 – CALL FOR PAPERS